Salvatore Gancitano, detto Enzo, è autore di numerosi libri su Mazara del Vallo, divenuti, ormai, una pietra miliare nell'ambito della scarna letteratura che si occupa della nostra storia patria. Ogni tanto si diletta anche scrivendo poesie e racconti. Vi propongo alcuni suoi scritti d'ambiente e sapore mazarese.
Era un venerdì
Era un venerdì. Finalmente. L’ultimo giorno lavorativo di una settimana gravosa e sfibrante. Quale sabato leopardiano, il venerdì, con la consapevolezza dei due giorni d’interruzione, di pausa, di mielosa noia da dedicare alla famiglia e ai figli, ridava quelle energie e quella vitalità ritenute esaurite. Un giorno di lavoro ancora, prima del week-end. Bisognava abbracciare la Croce della santa pazienza per le restanti ore di lavoro. Si chiedeva, senza trovare risposta, quale attività lavorativa fosse così stressante e mortificante come quella dell’informatore medico scientifico. L’alba dei lavoratori, dei pensatori e dei sognatori, quel giorno come tutti i giorni, nascondeva gli eventi incombenti, ma si apprestava a distribuire un’altra razione di dolori e sudori, di gioie e sorrisi, di lacrime e fatiche senza distinzione, non risparmiando i delusi, gli affaticati, gli addolorati, gli informatori come lui. Da più di mezzora viaggiava in macchina per raggiungere la città scelta per il lavoro e per affrontare i medici che, quasi tutti, ostentavano le doglie del parto e l’entusiasmo di un vitello al macello, alla comparsa degli informatori. Ma, soprattutto i pazienti, che proprio tolleranti non si mostravano, erano i loro nemici. Sbuffavano all’apparizione degli uomini in valigetta, denominati “commessi viaggiatori”, che spezzavano il lavoro dei medici e ghermivano la precedenza. Ma sì, sopportare! Poche ore ancora e poi ricaricare l’anima, la mente e il corpo. Il brusio monocorde della sala d’attesa era identico in tutti gli studi medici come il rumore delle cicale nella stagione estiva, fastidioso e incessante, fino a quando la calura arretra ed il frastuono si arrende alla notte che incede e concede la tregua. Che lavoro uggioso! Sollecitati dai capi area che pretendono un incremento delle vendite dei prodotti farmaceutici, mentre i medici di famiglia, a loro volta, sono bersagliati dai richiami delle ASL a prescrivere di meno. Percossi dagli assistiti che sbuffano ed elargiscono epiteti da provocare lesioni emorragiche al timpano, bastonati dai medici quando la loro luna è livida di rabbia, di stanchezza, di frustrazione, rimproverati dalle coniugi che si sentono trascurate per quei fine settimana, tanto bramati, ma dilapidati, a volte, con le visite in azienda o con gli aggiornamenti.
Quando entrò nell’ambulatorio del medico, Nino percepì subito che l’atmosfera non era la solita. L’ironia pungente e gradevole dell’amico era smarrita, il viso appariva triste, oltre che stanco, le parole senza forza, sussurrate, con un tono malinconico, il saluto d’accoglienza sbiadito, l’abituale derisione ironica “Buongiorno professore” a coloro che provenivano dalla zona del capoluogo, un ricordo sperduto. “Roberto, dottore mio, ma che ti succede, dov’è la tua allegria rinomata, il tuo sorriso che accompagna il saluto, l’efficace filosofia della vita che ti tiene al riparo dalle sferzate della tua professione, rigurgitante di aborrite norme burocratiche ?”. Il volto del medico restava immobile, incollato ai suoi misteriosi pensieri, ma, all’improvviso, un fievole e lontano suono uscì dalle labbra. “Ma tu, caro Nino, tu professore del capoluogo regionale, dove tieni gli occhi, non ti accorgi di quei potenziali assassini che pascolano come novelli Proci nella sala d’attesa a pretendere diritti senza riconoscere le norme per usufruirne? Le tue orecchie hanno perduto la funzione di percepire o, sordo per convenienza, ti isoli nell’estrinsecazione napoletana “a ddà passà la nuttata?” Mi chiedi dove si è smarrita la mia vivacità? Ma non hai scrutato quel branco famelico di belve che, insensibili ai richiami e ai rimproveri, ciarlano, blaterano, sproloquiano con voce da caverna, da stadio, giorno dopo giorno, a depredarti la pazienza, la mitezza, la forza fisica? Voci assidue, grida. Io amo le voci, ma non le grida, cerco la solitudine, il balsamo del mio senno in evaporazione. “La solitudine è la mia religione” diceva Beethoven, ma non per questo disdegno la folla. Ho necessità della solitudine, sia pure in una congrua dose giornaliera. Mi nutro di parole soavi e melodiose, ma quel concerto stonato di richieste simultanee ed insensate degli assistiti al solo apparire del medico toglie la vita a quella fragile serenità che mi accompagna e che, di giorno in giorno, mostra una consistenza sempre più eterea. Io accolgo le parole dipinte di rosa e celeste come la vita che nasce, ma non le ciance istoriate di nero e di rosso violento che deprimono l’ideazione, affondano la pazienza, uccidono la quiete e la volontà di ben operare. Le ore di lavoro, che marciscono la mente e l’anima, sono sempre inadeguate. Ogni mattina, un’ora prima dell’apertura degli uffici pubblici, inizia il martirio, tormento lento e continuo, ma, man mano più gravoso. E quando gli arti acquisiscono la pesantezza delle colonne dei templi greci o dei massi delle ciclopiche mura di cinta della città di Tirinto, i comuni mortali onorano il desco del pane caldo, dei sorrisi filiali, il desco sul quale spirano gli umori depressi e le collere accumulate, mentre il medico prosegue lo strazio con le visite domiciliari. Che pane amaro! La sera procede con i certificati di malattia e di invalidità e con lo squillo del telefono che prende fissa dimora nel padiglione auricolare. Quando mi è concesso, al pari degli altri mortali, di possedere pochi minuti di libertà da dedicare all’ascolto dei notturni di Chopin che rischiarano il buio dell’anima e ridanno il tono alla mente offuscata, dei concerti di Mozart, Tchaikosky, Grieg, che annullano la gravità dell’essere e librano i corpi negli spazi dell’etere, delle sinfonie di Dvorak, Schubert, Beethoven che infondono la tranquillità smarrita e tengono lontano i lamenti e i dialoghi monotoni di malattie e di morte? Mi spetta o no, Nino, un pulviscolo di tempo per eliminare la nebbia della mente martoriata e conservare l’illusione della leggerezza dell’essere? E ciò che è scuro in estate, caro professore, diventa buio tenebroso nella stagione del freddo e della pioggia. E nubi scure si profilano all’orizzonte. Mala tempora currunt!” Si fermò per qualche secondo come a volere prendere fiato fissando il viso sorpreso e sconvolto di Nino che non si frapponeva a quell’esplosione dell’anima ferita, e perché non aveva parole di replica e perché l’amico si sgravasse della zavorra intollerabile che da tempo lo opprimeva. Ma subito Roberto riprese: ” Tu conosci la storiella del medico che per parecchi anni non poté godere delle ferie per la difficoltà di trovare un sostituto ?” Al cenno negativo del capo dell’amico, Roberto aggiunse :” Ebbene il Buon Pastore, toccato da questa vicenda mesta ed iniqua, si offrì di sostituirlo. Il primo giorno, l’ambulatorio fu affollato, come non mai, dagli assistiti, convenuti più per curiosità che per necessità. Il primo paziente arrancò lentamente con il suo arto offeso dalla nascita e con l’aiuto di una stampella. Il Pastore, mosso a pietà, gli si avvicinò, pose le mani sull’arto, immantinente ravvivato da calore nuovo, e gli impose :”Lascia il bastone e cammina”. All’uscita, gli assistiti non si accorsero della stampella mancante, non carpirono il passo celere e sicuro dei due arti, lo attorniarono e gli domandarono: “Com’è, com’è il nuovo medico?”. Il volto del guarito per prodigio non mostrava gioia, ma una sottile patina di delusione, tuttavia non poté esimersi dalla risposta: “E’ come tutti gli altri, neppure costui visita!”. Gli assistiti, caro professore, non sono mai appagati. Quanta pazienza occorre! Che vita è mai questa, dimmelo tu, che esistenza è ? Appena un alito, frammentato da rari sorrisi e tanti gemiti, parecchie sferzate di vento gelido e raramente una carezza di pacata allegria. La vita è solo l’attimo della giovinezza, un fiume che muore nel mare, e come dice Hermann Hesse,” sono scomparse le vette luminose e lo stormire della gioventù. Da allora, nient’altro che polvere e fardelli, una lunga strada, calura e ginocchia stanche; solo nel cuore, che si sta inaridendo, osa persistere una certa nostalgia, addormentata, invecchiata”. Ineccepibilmente vero! Siamo cenere bianca, prestata sotto altra sembianza per la durata di un nulla. E’ meglio tornare nella terra del silenzio, scoprire l’ignoto, chiudere con gli affanni, le delusioni, le fatiche, le irritazioni, la vita piatta e triste!.” Rapidamente tirò il cassetto della scrivania, estrasse con la mano destra una pistola, l’appoggiò sulla tempia e un boato terribile si abbatté sui muri della stanza, mentre la testa reclinava pesantemente sulla scrivania e il pavido e prolungato “noooooo” dell’amico si perdeva nel silenzio della morte. Nino impallidì, avvertì la lingua come un macigno nel cavo orale, avrebbe voluto emettere parole di terrore e di richiesta di soccorso, ma quell’organo molliccio sempre pronto a far partire battute mordaci, era assente, privo di forze. Voleva accertarsi delle condizioni del medico, lì immobile, doveva telefonare alla polizia, ai carabinieri, ma le mani e le gambe non rispondevano ai suoi comandi, tutto sembrava paralizzato. Dopo alcuni lunghissimi secondi, un formicolio ridiede la vita a ciò che era spento. Gli balenò l’idea di informare la collaboratrice che avrebbe saputo prendere gli accorgimenti del caso. A passi lenti, come il palombaro all’interno dello scafandro, riuscì ad aprire la porta che immetteva nella sala d’attesa. Quasi tutti i pazienti e l’assistente coadiutrice erano in piedi e taciturni, ma i loro volti non ostentavano paura, apprensione. Possibile che non avessero percepito quello scoppio tremendo o l’avessero erroneamente attribuito alla caduta accidentale di un pesante strumento di lavoro? Si avvicinò alla collaboratrice e senza forza, riuscì ad emettere una fievole voce :”Signora, il dottore si è ucciso!” La collaboratrice di studio, per nulla allarmata, molto pacatamente, rispose: “Lo so, ho sentito. Oggi è la terza volta che si uccide”.
L’aria linda della piazza del paese aveva ridato in parte il colore della vita al volto di Nino che, tuttavia, avvertì la necessità di una bevanda che cancellasse l’ultima mezz’ora della sua esistenza. Si accontentò di un caffè energizzante al bar solito. Incontrò alcuni colleghi che non volle informare dell’accaduto. Era ancora scioccato ed indignato. Avrebbero dovuto assaporare anche loro l’amarezza di quella giornata di paura, se si fossero recati in quello studio medico. Quale senso cristiano della vita, quale umanità avevano avuto i colleghi con lui, omertosi fino alle ossa ? No, il silenzio è d’oro, il silenzio sarà la mia nemesi! Alcuni giorni dopo seppe che un collega aveva dovuto patire nel basso ventre un tremendo colpo di pistola. A salve. Che felicità per il collega colpito scoprire, dopo, di avere ancora una vita da vivere. Il colpo terrificante non aveva scalfito nemmeno il vestito. Che rabbia per Nino essere stato il bersaglio di tanta ignominia, che lavoro abietto questa professione nelle sperdute lande sotto il cielo di Sicilia!
E la Luna ride
La luna, dall’uomo invocata, evocata, imputata, scagionata, sorretta, elogiata, dall’antichità ad oggi appare sorridente e triste, talora incurante dei pensieri dei terrestri, talaltra angustiata per tante vacue implorazioni. Presso i Romani ed i Greci era ritenuta sorella o moglie del Sole, così pure presso gli Incas. La Luna sorride delle credenze antiche e contemporanee, non scalfisce la tradizione della sua influenza sulla vegetazione, sulla meteorologia, sulla mestruazione, sulla psiche umana, sulle maree, sull’eclissi. Le eclissi erano considerate collera della divinità lunare. Che sorrisi, o Luna ridens! Ma talora si mostra malinconica alle implorazioni umane, a Saffo:
Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte ; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola.
La mitologia la ritiene eterna ed immortale giacché scompare e ricompare, muore e rinasce. Eppure sin dal V secolo a. C. erano ben conosciute le cause astronomiche dell’eclissi lunare e solare. Persino dai Maya. Ma l’uomo preferiva affidarsi alle credenze ancestrali. Le donne di Tessaglia, maghe rinomate, erano ritenute capaci di far scendere dal cielo la Luna. Aristofane, infatti, riporta tale credenza in un passo della sua opera “Le nuvole”, quando Strepsiade chiarisce a Socrate il piano per rinviare la fine del mese e non pagare i debiti:” "Se comprassi una maga tessala e se di notte facessi scendere la Luna e la chiudessi in un astuccio rotondo, come uno specchio, e la tenessi ben guardata?"
Anche il popolo Afgano si rivolge alla luna:
“Se il mattino fosse una chiave la getterei nel pozzo,
cammina lenta, mia graziosa luna, cammina lenta.
che il sole del mattino si scordi di sorgere,
cammina lenta, mia graziosa luna, cammina lenta”.
Persino il poverello d’Assisi si ricorda della Luna nel suo Cantico delle creature:
Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Poeti, musicisti, innamorati, religiosi sono stati ispirati dalla Luna e alla luna si rivolgono.
Leopardi: ”Che fai tu Luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa Luna?” E tenta di placare la sua tristezza con un Inno alla Luna:
O luna, tu che illumini ogni sera il tempo del sonno,
dove il sogno prende il sopravvento sulla realtà,
dove le ombre cancellano la luce,
illumina anche il mio cuore, perennemente dolente.
O spicchio di luce, che illumini i baci e le carezze dei giovani innamorati,
rischiara il loro cammino,
perché, confusi dal loro sentimento, non vedono l’irto sentiero
dove si imprimono i loro inesperti passi.
O notte, portatrice di effimere illusioni,
il tuo manto stellato possa avvolgere le mie parole
e consegnarle al vento, affinché possa essere mio messaggero.
Ancora, D’Annunzio: “O falce di luna calante che brilli su l'acque deserte, o falce d'argento, qual mèsse di sogni ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!”. Nell’antichità si credeva che la Luna fosse la meta per il viaggio nell’aldilà. Anche Walt Whitman rammenta e celebra la Luna:
Abbassa il tuo sguardo, bella luna, e inonda questa scena,
versa benigna i fiotti del nimbo della notte
su volti orrendi, tumefatti, violacei,
sopra i morti riversi con le braccia spalancate,
versa il tuo nimbo generoso, sacra luna.
E la Merini:
La luna geme sui fondali del mare
o Dio quanta morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell’anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino…
Gli Egiziani consideravano la Luna l’occhio di Dio. Gli antichi romani lo sapevano, il consigliere della regione Lazio Fiorito no. E la Luna mantiene la particolarità di divenire rossa (dalla vergogna) quando vede le mani sporche di tutti i Fiorito d’Italia, ripiene di soldi sottratti .E la Luna ride, sghignazza quando ode le parole di Fiorito che tutto quel denaro gli appartiene.Come la volpe di La Fontaine che mostra al lupo l’immagine della Luna in fondo al pozzo come fosse un’ appetitosa forma di formaggio. Ingannare con bugie, false promesse e la Luna ride. Mentre Federico Garcia Lorca tenta di scoprire il mistero della Luna:
Pronunzio il tuo nome
nelle notti scure
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
dalle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.
Pronunzio il tuo nome
in questa notte scura
e il tuo nome risuona
più lontano che mai.
Più lontano di tutte le stelle
e più dolenti della dolce pioggia.
… Potessero le mie mani
sfogliare la luna.
Piazzetta San Bartolomeo (o Piano della verdura)
Nel lembo meridionale del lontano shari musulmano (asse viario principale), cuore del vetusto centro antico della città, alla estremità opposta della Porta Palermo (Bab Al Balarm) e a pochi m
etri dal palazzo fortezza del sultano Ibn Mankut, principe di Mazara, Trapani, Marsala e Sciacca nel tempo della dominazione araba, giace cullata da silenzio annoso ed accarezzata da sbiadite memorie la Piazzetta San Bartolomeo. Come altre strade e piazze, il toponimo origina dalla presenza di una chiesa, dedicata al santo sunnominato, appartenuta agli aderenti alla Confraternita di San Bartolomeo, la più antica della città. La nascita, infatti, si attribuisce al periodo musulmano, tra il IX e il X secolo, quando i confrati si riunivano nella Grotta di San Bartolomeo a Miragliano, sulla riva destra del fiume Mazaro, alla mezzanotte di ogni sabato, per eludere i sorveglianti islamici. I nuovi dominatori, infatti, pur tollerando la religione cristiana, impedivano l’erezione di nuovi templi. Soltanto nel 1330, durante il regno aragonese di Federico III, gli aderenti alla congrega abbandonarono il primitivo tempio e si riunirono, forse anche per evitare le scorrerie piratesche, all’interno della città murata, nella Chiesetta del Rosariello, nota anche come chiesa di tutti i santi, sita nella parte terminale della Via Bagno. Una croce, una palma, un coltello e le parole “in iis et aliis floreo” costituivano l’insegna della congregazione. Nel 1431 i membri della confraternita costruirono una nuova chiesa, a loro spese, nella Via Carmine, sull’area di un edificio di proprietà dei nobili Graffeo, situata tra la Chiesa dell’Annunziata e il Convento dei Carmelitani. L’episcopo mazarese Giovanni La Rosa concesse la possibilità delle funzioni religiose e della sepoltura nella chiesa agli aderenti alla congrega ed anche ai coniugi.
In questo tempio gli esercizi spirituali furono eseguiti fino al gennaio del 1600, quando la chiesa fu ceduta al Convento dei Carmelitani e, con il ricavato, fu edificato il nuovo tempio religioso nel Piano dei Sansone, l’attuale Piazzetta San Bartolomeo. La chiesa, di dimensioni non modeste per appartenere ad una congrega, presenta prima dell’altare dei gradini che conducono alle catacombe, peculiarità di molti templi religiosi della città. Nei primi decenni del Seicento, il secolo della miseria, il vescovo Marco La Cava, nominato nel 1602, lasciava per le strade il suo odore di santità abbracciando le sofferenze dei poveri e favorendo la nascita di confraternite, momento di aggregazione e di mutuo soccorso delle categorie artigianali. I confrati della chiesa di San Bartolomeo conservavano il privilegio, essendo la più antica congregazione, di allinearsi per ultimi durante le processioni religiose cittadine. In quel tempo la partecipazione alle congregazioni non significava apparire, ma occuparsi e preoccuparsi dei poveri, degli ammalati, dei moribondi, dei diseredati, delle vedove, degli orfani abbandonati, dei mendicanti elusi anche da coloro che spiegavano il Vangelo, dei lamenti inascoltati, della giustizia trascurata, della vita depredata, della fame non placata né mitigata, delle lacrime silenziose non raccolte, dei conforti non elargiti, delle preghiere dimenticate, dei naufraghi mai tornati, delle grida di dolore nel vento e nel vuoto, dei captivi in terra barbaresca, della libertà oltraggiata e negata. Una città dove ai pochi ricchi e potenti si contrapponevano molti umili, assediati da una terra arida irrorata dai sudori e da un mare tanto munifico quanto violento.
Lunga sedici metri e larga quattordici, un tempo, la piazzetta era denominata Piano della Verdura a richiamare le molteplici botteghe di frutta e verdura ivi situate, propaggine del famoso mercato della Piazza Chinea. Altro toponimo precedente era Piano dei Sansone che ricorda la residenza della nobile famiglia mazarese il cui palazzo, probabilmente, si affacciava sulla Piazza Chinea.
Piccole estensioni e grandi storie. Modestia di spazi e grandi virtù si congiungono, si tengono per mano. Nel piccolo e nel grande, nell’umile e nel potente la lacrima ha identica dimensione, nel piccolo e nel grande la necessità di Dio è uguale.
Piazzetta Santa Caterina
Le pallide fanciulle, a passo lento e gravoso, attraversavano la Piazzetta Santa Caterina per recarsi al monastero a segregare il corpo e, forse, anche l’anima, per divenire monache di clausura, ancelle di Dio, non per loro scelta, ma per non disubbidire alla volontà del padre padrone. Tuttavia, speravano ancora, in quegli ultimi passi prima della porta d’ingresso, in un prodigioso ripensamento dei genitori. Nella maggior parte, mostravano un viso triste, giacché erano consapevoli di dovere rinunciare alle piccole e semplici gioie della vita, ai giochi familiari, alle passeggiate con le amiche per le strade della città, alle feste del parentado. Tutto, da quel momento, sarebbe stato negato e obliato. Dovevano sacrificare la libertà, il sorriso, lo sguardo al sole, al mare, alla spiaggia, al verde della campagna, al volo delle farfalle, al canto degli uccelli. E molte di loro non sentivano la voce della chiamata, il richiamo del sacrifico. Chissà, se attraverso le grate delle loro prigioni avrebbero potuto catturare il volo dei passeri e dei gabbiani instancabili nel loro moto tra gli alberi della villa comunale e sopra le acque fluviali e marine. Si spalancavano le porte del monastero e la speranza si spegneva dolorosamente soltanto in un abbraccio d’abbandono, Come la luce quando cede, seppure lentamente, al buio della notte.
A pochi metri dalla parte posteriore della Cattedrale, dalla Chiesa San Giuseppe e dal Piano Maggiore, è collocata la Piazzetta Santa Caterina.
... la piazzetta nel 2014
Di forma rettangolare e di dimensioni limitate, trenta metri in lunghezza e quindici in larghezza, un tempo avvolta dal silenzio, oggi è un centro vivace ed accogliente per la presenza di attività commerciali, soprattutto nella stagione estiva. Il toponimo richiama la chiesa omonima fondata nel 1318 dalla nobildonna Giovanna De Surdis su un santuario preesistente, mentre il monastero fu costruito qualche anno prima. Appartenente all’ordine di San Benedetto, come gli altri due famosi monasteri di Mazara, San Michele e Santa Veneranda, terzo in ordine cronologico, questa comunità accoglieva le figlie di casate agiate come i Barracco, i Gambina, i Polito, i Provenzano, gli Infranca, etc. e in minor numero le figlie di nobili come i Sansone, i Milo, i Gerbino, Graffeo, Marsiglia, Marzo, Sicomo, Cusa. I nobili del territorio e del palermitano prediligevano per le figlie l’antico monastero normanno di San Michele. In quello di Santa Veneranda confluivano le plebee. In genere il monastero di Santa Caterina accoglieva trenta monache ed in più le novizie, le educande e le converse. Anche se oggi la chiamata avvertita dalle giovinette è quasi scomparsa, in quei secoli, la consacrazione di una monaca costituiva un avvenimento con relativo festeggiamento. Eccezionale fu la consacrazione di ben quindici moniali il 9 gennaio 1638 da parte del vescovo di Mazara, il cardinale Giovanni Spinola. La clausura era rigorosa. L’accesso al monastero era consentito solo alle autorità ecclesiastiche, al medico e a qualche operaio. Incombeva, infatti, la scomunica se le suore si facevano semplicemente vedere, anche incidentalmente, attraverso la porta aperta, sia pure in occasione di necessità lavorative. Ma anche l’invio di dolci ai padri confessori era motivo di scomunica. Tuttavia, in occasione della visita a Mazara della regina Maria Carolina, l’8 giugno 1813, il monastero aprì le porte ad un grande numero di persone.Tra il 1931 e 1933 furono abbattuti i monasteri di San Michele e Santa Caterina per l’edificazione di due complessi scolastici, Santa Veneranda e Santa Caterina. Il silenzio, un tempo rotto dalle preghiere delle monache, adesso è sostituito dal vocio gioioso degli alunni. Intorno al 1600, la chiesa fu restaurata in stile barocco e decorata dal pittore palermitano GiuseppeTesta. Il pavimento della chiesa è ricoperto da ceramiche smaltate. Il portale mostra un rilievo raffigurante Santa Caterina appoggiata su una conchiglia. La chiesa non contiene sepolcri. Sembra che le monache fossero seppellite nel terreno tra il tempio sacro e il monastero, il cui portale, in stile aragonese, adesso, è collocato sul lato occidentale delle mura esterne della chiesa. Originariamente il portale era collocato sull’ingresso del monastero, corrispondente attualmente a quello dell’edificio scolastico. Il precedente toponimo era Piano Santa Caterina. In quel periodo nella Chiesa perveniva lo scampanio di un gran numero di templi sacri dei dintorni, segno della religiosità dei cittadini: San Basilio, Sant’Agnese, Santa Veneranda, San Domenico, Santa Maria Maddalena, Santa Maria de Nives, Santa Maria dell’Itria, San Calogero, Santa Maria La Nuova, San Michele, San Giuseppe, San Marco, Chiesa S. S. Salvatore (Cattedrale), San Pancrazio, Santa Chiara. Questo piano segna un netto confine tra la vivacità del Piano Maggiore, centro della vita socio-politico-religiosa della città, e il silenzio mistico, smarrito tra le pieghe del tempo, del triangolo dei tre monasteri benedettini, luoghi di preghiere sentite e di rimpianti per scelte non fatte, né volute.
Quel burlone
Ogni angolo di cielo copre un frammento di storia, uno spicchio di vita, il solco di una lacrima, il ritrovo di un sorriso, il soffio di una blandizia, l’attimo di un’accoglienza, il fluire del sudore, l’evasione di un’imprecazione, la pausa di una preghiera, l’illusione di un sogno, una goccia di pioggia sul viso, un alito di malinconia soffocata, la cupidigia del potere, una tra
ccia dell’esistenza che scorre, in una città, in un paese, in una contrada, in una strada, in un tugurio, in un cantuccio dall’effluvio di mondo reale. In un tempo degli anni intorno al 50 dopo il Novecento.
Era un burlone Peppino. Non poteva fare a meno di appioppare una burla al prossimo, parente, amico o estraneo che fosse. Era nel suo dna. Non era in grado di sfuggire ai suoi impulsi naturali. E tutti in paese conoscevano questa sua idea ossessiva della beffa tanto che ne soppesavano attentamente le parole e le proposte. Ma era anche uno spudorato scansafatiche, un fannullone che preferiva guardare gli altri lavorare piuttosto che sudare e ricevere i rimbrotti degli intolleranti proprietari. Questi, peraltro, quando se lo trovavano di fronte con la richiesta di lavoro, rispondevano negativamente o perché non avevano realmente lavoro da offrire o perché, pur avendolo, conoscevano bene quell’individuo che non amava né tollerava il sudore e il freddo rigido. La moglie Sara, pertanto, era stata costretta a cercare un lavoro da domestica per sopravvivere e per evitare un destino di letale inedia a sé e ai figli. Quando il marito tornava dai suoi tentativi infruttuosi di ricerca di lavoro con la tranquilla espressione di sempre, la consorte, singhiozzando, si abbandonava alla disperazione :”E’ giusto che noi dobbiamo continuare a vivere nella povertà assoluta? Non c’è proprio nessuno, parente, amico o un santo che voglia prendere a cuore la nostra pietosa condizione?” In questi frangenti, Peppino si avvicinava a Sara, l’abbracciava e la consolava sussurrandole all’orecchio sempre le stesse parole: ”Stai tranquilla, vedrai che un giorno o l’altro la buona sorte si degnerà di guardare la nostra casa”. Tuttavia, la povera donna non poteva fare a meno, talvolta, di inviare delle sgridate ferme a quel perdigiorno di suo marito nell’intento, quasi sempre vano, di indurlo in qualche proficuo impegno. “Muoviti, cercati un qualsiasi lavoro, sfaticato e mangiapane a tradimento! Vai almeno per le campagne a raccattare verdura!”
Quel giorno il burlone sembrava confessato di fresco. Aveva quasi sconvolto la moglie con la sua insolita risposta: “Va bene, vado subito”. E, mistero della vita, si era immediatamente avviato, seppur con la solita scarsa lena, verso i campi. Immergeva gli occhi nel verde intenso della campagna dall’odore di terra, appena rimossa dalla zappa dell’agricoltore che non si curava dell’acre sudore che scendeva dalla fronte. Si soffermava a pensare sulle motivazioni della mancanza di un lavoro adeguato per lui. Per il bene che voleva alla sua Sara, avrebbe affrontato un lavoro, non massacrante però, non come quello che stava osservando, con la pioggia e il freddo, con il caldo e il sudore, con il digiuno o un tozzo di pane, anche nei giorni del Signore. Chiedeva un’attività confacente alle sue possibilità. Se pensava a quei facoltosi della sua città che non conoscevano i colori del mattino, i morsi e i pianti dell’inedia, gli spasimi dell’esistenza, il fumo dell’aglio arrostito o del pesce secco riscaldato, ma solo le passeggiate nel pomeriggio appoggiando sul bastone il peso della noia. Da dove proveniva quella ricchezza, perché quella prosperità e quell’agiatezza non avevano irrorato anche il suo capo e le sue tasche? Perché tanto sudore, tanta angoscia, tante sofferenze ai più per vivere la vita e tanto tedio ai pochi per uccidere il tempo? Perché non un’equa divisione e perché tanti quartieri nella fame più nera. Da qualche parte aveva letto che se tutte le famiglie benestanti rinunciassero ad un solo boccone per ogni pietanza il problema della fame sarebbe risolto. Ma non dice il Vangelo “ciò che avanza datelo ai poveri” ed anche che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco raggiunga il Paradiso? Ma il timore non alberga nei loro cuori. Basta, basta, adesso alla ricerca di verdura. Aveva raccolto una discreta quantità di borraggine, bietole ed altre verdure commestibili, tipiche della campagna mazarese, quando fu sorpreso da un violento acquazzone che lo indusse a raccogliere la verdura e a cercare un riparo nei dintorni. Mentre guardava attorno, si soffermava a degli apprezzamenti sull’inclemenza del tempo in quel mese di febbraio. Erano quindici giorni che pioveva e il sole quel giorno sembrava promettere tutt’altra giornata! Allora era proprio veritiero il detto “Frivareddu tintu tuttu, jorna longhi e misi curtu?”. (Febbraio, cattivo tutto il mese con i suoi giorni lunghi e il mese corto). Ma ecco ad un centinaio di metri un tugurio, con una piccola tettoia sul prospetto anteriore, sotto la quale si portò dopo una corsa rapida per quel che gli anni e il fisico, non più giovanile, gli consentivano. Adagiò sul suolo la verdura parzialmente bagnata, si scrollò di dosso con solleciti movimenti degli arti superiori le gocce di pioggia non ancora assorbite dagli indumenti e, mentre batteva i piedi su quella superficie di terra compatta, si strofinava le mani, le braccia e il corpo. Nell’attesa che spiovesse osservò, sul lato sinistro di quella vecchia e malridotta casupola,una finestra parzialmente forzata. “Quanta gentaglia in questo paese! Però sarebbe più confortevole stare al riparo anche dal freddo”. Se esitazione ci fu non durò che un solo secondo. Forzò del tutto la finestra, entrò, diede uno sguardo attento in giro nel caso trovasse tra tutta quella roba “abbandonata”, sedie senza fondo di paglia, scope consunte, bastoni spezzati, zappa deformata, etc. qualcosa di utile per la sua abitazione. “Niente, proprio niente. Esistevano esseri umani, dunque, poveri come lui o anche di più”. Ma, nell’attesa che il cielo placasse la sua rabbia, continuava a rovistare fino a che il suo sguardo fu attratto dalla peculiare presenza in un angolo di un pitale a due braccia, che un tempo veniva utilizzato per raccogliere gli escrementi intestinali e le orine che erano successivamente scaricati fuori dell’abitazione. Anche se pieno di polvere, Peppino fu attratto da quel vaso e la curiosità, che non sempre è donna, lo spinse a mettere la mano dentro. Le dita avvertirono un freddo metallico, le strinse e le tirò fuori. Era mai possibile, era vero quello che vedeva? Chiuse gli occhi e li riaprì. L’immagine era sempre la stessa. Luccicanti marenghi d’oro nella sua mano! Rimise la mano piena nel miracoloso pitale e rovistò producendo un meraviglioso rumore di monete. Doveva portare l’intero vaso a casa per avere finalmente un plauso, un apprezzamento dalla sua Sara, ma quel pitale non voleva davvero saperne di sollevarsi. Era veramente così pesante o erano i suoi muscoli debilitati dall’esclusiva alimentazione a base di pane nero e verdura? Aumentò le sue forze, vedeva contrarsi i muscoli addominali smisuratamente, il respiro si faceva pesante, dispnoico, i battiti cardiaci aumentavano come un motore surriscaldato e sotto sforzo, ma il vaso non si staccava dal pavimento. Spossato si arrese, si appoggiò su una sedia senza fondo mandando imprecazioni contro quel maledetto vaso da notte e, dopo qualche minuto, avvertì movimenti intestinali imperiosi. Non poteva aspettare o pensare, doveva assolutamente sedersi su quel pitale. Non gli importava alcunché di contaminare le monete, per lui quel momento e quell’atto della defecazione andavano espletati nel modo più confortevole. E così fece! Adesso si sentiva decisamente bene, anche il tempo si era messo sul bello. Prese la verdura e si avviò verso casa. All’altezza della Via Salemi, quando stava per giungere all’abitazione, incontrò l’amico Cola che già da un po’ gli faceva cenno di fermarsi.”Ma da dove vieni così inzuppato?” Peppino, che avrebbe voluto raggiungere immediatamente il suo alloggio per cambiare l’indumento umido, rispose che veniva dalla campagna e raccontò con noncuranza l’intero accaduto con il pitale pieno di monete d’oro che non era riuscito a staccare dal pavimento. Omise la parte finale del mal di pancia per evitare che gli venissero attribuiti giudizi di comportamento da uomo primitivo. Si salutarono. Cola si avviò verso Piazza Matteotti sorridendo. “Pensava veramente quel burlone di averlo abbindolato con le sue parole? Non lo sapeva che ormai tutti a Mazara non credevano minimamente a quello che lui diceva? Ma… ma… ma se fosse stato vero, se per una volta soltanto quel buontempone avesse detto la verità? No, non poteva essere possibile, lui Cola non poteva cadere nella burla come tutti gli altri mazaresi!”
Stava per giungere nella piazza dei contadini nella quale si intravedevano i soliti muli e cavalli intenti a bere dalla vasca marmorea posta a pochi metri dal passaggio a livello e si fermò. Le parole di Peppino mulinavano ancora nel suo cervello, non volevano cadere nell’oblio, cosa doveva fare per dimenticarle? “Dai Cola, smettila ! Non pensare più a quel ciarlone e sfaccendato. Non farti raggirare!” Si convinse e riprese il cammino. Attraversò lentamente i binari e si ritrovò nella piazza a lui familiare, dove trascorreva il suo tempo libero. Un piccolo gruppo di persone osservava le cassette di pesci che un pescatore aveva deposto sul marciapiede. Ancora pochi pesci da vendere, gronghi e murene. Già, i pesci lunghi, di solito grassi, è preferibile mangiarli in inverno. Dice bene il detto mazarese, Jorna curti e pisci longhi. Jorna longhi e pisci curti. (D’inverno pesci lunghi-grassi, d’estate pesci corti-magri). Gli ultimi acquirenti stavano acquistando con pochi soldi. Alla vista delle monete, Cola si fece imprigionare di nuovo dal suo pensiero. “Ma era lecito restare con questo dubbio? E se qualche altro, al quale sicuramente quel chiacchierone avesse raccontato la sua storia, si fosse accaparrato quel tesoro? No, non poteva rimanere con questo dubbio!” Si voltò e a passo deciso si avviò verso la campagna indicatagli. Ecco il tugurio con la copertura, l’indicazione dunque era giusta e reale, ecco la finestra forzata, vi si portò innanzi, si guardò attorno, non voleva essere scambiato per un ladruncolo scassapagghiaru e arrobbapoviri, nessuno alla vista e prontamente si introdusse in quel fabbricato fatiscente. Pressato dalla apprensione e dalla paura di essere colto in fallo diede uno sguardo rapido e in un angolo riconobbe il rustico vaso da notte di cui tanto aveva parlato Peppino. “Ma allora aveva detto la verità?!” Quello sciocco, quel ciarliero che non sa tenere la lingua a riposo, ben gli sta”. Si affrettò, già pregustando la sua insperata ed incredibile ricchezza, inserì rapidamente la mano, palpò qualcosa di molliccio e maleodorante; un dubbio, un atroce dubbio e la ritirò immediatamente. “Quel porco, quell’imbroglione, quel farabutto, quel fannullone e lui stupido, stupido tre volte, dieci volte, come se non avesse mai conosciuto quel buono a nulla, come se la sua fama di burlone non fosse notoria. Ma gliela avrebbe fatto pagare, doveva pagare e subito! ”Si scervellò ed escogitò un piano che a Cola parve ottimo. Intanto riversò tutta la sua energia per staccare il vaso dal pavimento riuscendo nell’impresa laddove quel furbacchione non aveva avuto successo e lo portò a casa. A tarda sera quando le strade erano deserte e scarsamente illuminate, Cola mise sulle spalle l’oggetto del malumore della giornata e si diresse nella vicina abitazione del burlone. Si guardò in giro. Nessuno. Come prevedeva. Adagiò davanti alla casa di Peppino quel puzzolente vaso in equilibrio instabile, appoggiato alla porta in modo tale che la mattina seguente all’apertura, il pitale, senza più appoggio, avrebbe riversato dentro la dimora il fetido escremento di proprietà di quel briccone.
Alle prime luci dell’alba, Sara iniziava la consueta pulizia di casa raccogliendo l’immondizia in un secchio apposito che, prima di andare al lavoro, avrebbe svuotato in un punto di raccolta nella strada. Così si avviava a fare anche quella mattina, ma quando aprì la porta sobbalzò per il rumore, il fetore e l’enorme numero di monete d’oro abbandonandosi in un urlo primordiale. Alle grida accorse Peppino che, riconosciuti il pitale, le monete e persino il suo sterco, riversati sul pavimento, compiaciuto di sé, rivolto affettuosamente alla moglie esclamò: “Babba, ti l’havia dittu chi la furtuna quannu voli, la canusci la casa! (Stupidella, te l’avevo detto che la fortuna, quando vuole, sa dove andare!) Poi volse per un solo attimo gli occhi al cielo e disse:”Benvenuto, giorno!” Ce ne hai messo di tempo per ricordarti di me!”
Ogni angolo di cielo nasconde l’istante della gioia, l’ansia dell’attesa, il fango della vita, le grida della disperazione, la paura dell’ignoto, la quiete dopo il pianto, la fuga dell’alito vitale, la fine delle sofferenze, la collera dell’umile e del dimenticato, lo sbadiglio del facoltoso, la calma della pace, il trionfo del silenzio, il piacere della burla, il sorriso dell’allegria.
Nunca, (Dunque)
Cu è putenti? (Chi è potente?)
Cu havi assà (Chi ha molto)
e cu nun havi nenti! (e chi non ha niente!)
Madonna della campane o Santa Maria della tosse
Nella Piazza della Repubblica, già Piano Maggiore, all’estremità destra del portico sotto il seminario, prima della fontanella e della Via Dell’Orologio, è situata un’edicola, trascurata e poco conosciuta dai Mazaresi. Questo tempietto, edificato per volere del vescovo Stella nel 1746, mostra l’immagine della Madonna delle Campane o Santa Maria della Tosse. L’immagine sacra, secondo quanto asserisce lo storico Alberto Rizzo Marino, probabilmente è una copia, eseguita nel ‘600, dell’originale che si venerava in una chiesetta rurale nella contrada Miragliano. Davanti a questo dipinto prodigioso si recavano per tre giorni consecutivi gli anziani affetti da malattie catarrali e i bambini sofferenti di pertosse, alle prime luci dell’alba e nell’ora dell’avemaria. Dopo le rituali preghiere e le richieste di guarigione, gli ammalati tornavano nelle loro dimore sollevati e fiduciosi. Ma i fanciulli, affetti da pertosse, in un epoca successiva, nella quale ancora non si conoscevano gli antibiotici specifici dell’agente batterico, responsabile della patologia, erano condotti anche negli ovili a respirarne l’aria ottenendo miglioramenti e, dopo alcuni giorni, scomparsa della tosse.
Precedentemente l’immagine sacra era collocata in Cattedrale nella parte opposta alla navata dell’Immacolata. Successivamente, intorno al 1710, quando fu completata la prima parte del Seminario, il vescovo Bartolomeo Castelli la sistemò vicino all’ingresso dello stesso, di fronte al campanile della Cattedrale, nella Via S.S. Salvatore. Nel 1777, il vescovo Ugone Papè ristrutturò l’edicola proteggendola con un cancelletto. Adesso, l’immagine è ancora lì, coperta dalla polvere dell’abbandono, dell’oblio, del silenzio, dell’ignoranza. Nessuno ne conosce l’esistenza, nessuno va più a pregare. Solo uno sguardo distratto, di curiosità, forse costituisce intralcio allo sguardo. Ma ogni angolo, ogni strada, ogni vicolo, ogni edicola, ogni soffio d’aria di questa bistrattata città ha una sua storia di gioia e di sofferenza, di religiosità e d’indifferenza, di povertà e di ricchezza, di umiltà e nobiltà. Oggi le memorie del passato sono frutto decomposto e indesiderato.
La Statua di San Vito a mare
Vuole un’ antica tradizione, verosimilmente leggendaria, che la statua lapidea di San Vito sia stata costruita sopra un cratere di uno dei tanti piccoli vulcani sottomarini della zona. Si sconoscono la data di edificazione del monumento e il nome dello scultore. La storiografia locale ha attribuito e, forse, attribuisce ancora l’opera allo scultore palermitano Filippo Pennino. Niente di più sbagliato. Infatti a pag. 406 dell’Atlante storico della Sicilia di L. Dufour troviamo una pianta della nostra città, Plan et vue de Mazzara del 1719, di G. de Bauffe, che riporta chiaramente la statua di San Vito a Mare. E lo scultore Filippo Pennino nel 1719 non era ancora nato (1755 o 1733). G. de Bauffe era un ingegnere militare al servizio dell’armata spagnola accampata nei pressi di Castelvetrano, durante la guerra di Successione in Sicilia tra Austria e Spagna. In missione di spionaggio, eseguì uno schizzo della città dalla parte settentrionale, evidenziando chiaramente la Porta Palermo, il castello e la Porta Mokarta, gli edifici religiosi, lo sfondo del mare e la statua di San Vito. Quindi, nel 1719, la statua era esistente e rimane da dimostrare l’anno della sua edificazione. Il monumento alla foce del Mazaro, in dura pietra calcarenitica, presenta ai suoi quattro lati, per volontà dei suoi concittadini, quattro distici con i quali si rinnova al Santo la richiesta di protezione. Per motivi di brevità ne riportiamo solo due. Sul lato del piedistallo, antistante la città, è riportata la seguente iscrizione:
Dive mari terraeque praees, dominaris utrisque Sint procul hinc fluctus, fit procul inde tremor.
(A Te, o Santo, la cura del mare e della terra, domina su entrambi; stiano lontano da qui le tempeste, stia lontano da qui il terremoto). Sul lato posteriore del monumento si rileva:
Si pestis caelum minitatur, Dive, flagella: Hoc procul a patria, tu quoque pelle malum.
( Se il cielo minaccia il flagello della peste, o Santo, tieni questo malanno lontano dalla tua patria ).
Da secoli, ogni mattina, ancor prima dell’alba, sfilando con le fragili barchette dalle bianche vele, davanti alla statua del Protettore, i pescatori potevano rivolgere al Santo un pensiero o una preghiera per essere preservati dalle immancabili tempeste.
Nel ‘Settecento, Ottocento e nei primi decenni del Novecento la povertà dei pescatori, infatti, era tale che la sopravvivenza era assicurata solo dal lavoro giornaliero da intraprendere anche quando il tempo non si mostrava favorevole. La battaglia contro l’inclemenza del tempo, soprattutto nei mesi invernali di febbraio e marzo, era quasi una costante. Il vento improvviso e le trombe d’aria, le temute draunare, provocavano frequentemente il rovesciamento delle barche, l’annegamento dei pescatori, talora con mancata restituzione dei corpi esanimi sui quali i familiari potessero versare lacrime consolatrici. E nei momenti disperati durante il naufragio come in quello di uscita dal porto, il pensiero le mute preghiere lo sguardo dei pescatori erano rivolti al loro Protettore, lì alla foce del fiume, a quella statua lapidea collocata da secoli sulla roccia e sull’acqua, unica loro difesa, eterno conforto ed immutabile speranza. Adesso gli abitanti hanno forse dimenticato il passato ed accettano di vedere una statua nascosta da lamiere e legni.
La statua di San Vito nel Piano Maggiore
In questo salotto monumentale che è l’attuale Piazza della Repubblica, un tempo Piano Maggiore, volgiamo lo sguardo alla statua di San Vito, i cui tre gradini costituiscono luogo di sosta per i giovani della città. Come e quando nasce la statua?
Dopo lo sbarco a Mazara, i Musulmani costruirono nell’attuale Piano, nel quale era presente soltanto una chiesa bizantina, la Muschita Magna (la moschea) e il minareto a cinque piani. Dall’alto della torre, il muezzin invitava cinque volte al giorno i fedeli alla preghiera. Fedeli che non dovevano essere pochi. Durante i primi mesi dell’occupazione, ed in ogni caso prima dell’erezione della moschea, era puntualmente applicato l’insegnamento di Maometto: “Nell’ora della preghiera, devi farla là dove ti trovi. Là è la moschea”. In seguito, con l’avvento dei Normanni e la costruzione della Cattedrale, il minareto fu provvisoriamente trasformato in campanile.
Nel 1550 il vescovo Girolamo Termini, infatti, apportò delle migliorie al campanile ed ordinò una campana, denominata “hieronima” (dal nome dell’episcopo mazarese). Trentaquattro anni dopo, nel 1584, il vescovo Bernardo Gasch collocò su tale campanile minareto un rilievo in marmo raffigurante il conte Ruggero a cavallo che sovrasta un musulmano a terra. Qualche anno dopo, e precisamente nel maggio del 1587, questo antico torrione rovinò, ma incredibilmente il rilievo marmoreo si salvò e fu posto sul prospetto principale della Cattedrale, come ancora adesso è visibile. Sulle macerie del minareto fu edificato nel 1771 l’attuale statua di San Vito ad opera dello scultore Ignazio Marabitti e per volere del vescovo Michele Scavo. Sui quattro lati del monumento sono poste altrettanto iscrizioni e precisamente sul lato meridionale, antistante il seminario, si può leggere:
HIC EST QUI MULTUM ORAT
PRO POPULO ET UNIVERSA CIVITATE
2 MACHAB:15
(Qui è colui che tanto prega per i suoi concittadini e per l'intera città)
Sul lato settentrionale appare questa breve iscrizione:
H.O.E.
A.R.S.
MDCCLXXI
(Hoc opus exactum, anno regni Siciliae, MDCCLXXI e cioè "Questa opera è stata compiuta nell'anno del regno di Sicilia 1771).
Sul lato occidentale si legge:
D. O. M.
DIVO VITO
CIVI ET PATRONO
BENEFICENTISSIMO
MICHAEL SCAVO
MAZAR PONTIFEX
(A Dio Ottimo Massimo. A San Vito, concittadino e patrono,beneficentissimo,Michele Scavo, vescovo di Mazara).
Sul lato orientale, antistante la cattedrale, è raffigurato lo stemma del vescovo.
Così gli abitanti del Mazaro dedicarono al loro Santo concittadino, oltre alla chiesa a mare sulla riva orientale, alla chiesa in urbe nella piazzetta Santa Teresa, alla statua lapidea alla foce del fiume, eretta ad opera dei pescatori mazaresi ancor prima del 1719, la statua nella piazza principale della città. Non solo, ma nel 1614 i giurati di Mazara deliberarono di eleggere il martire San Vito a Patrono della città, con l’approvazione successiva del vescovo Marco La Cava. Il Santo martire con la croce nella mano destra ostenta ai concittadini la strada da seguire per la salvezza eterna, mentre i due docili cani ai suoi piedi ricordano la Sua protezione dai morsi dei cani affetti da rabbia.
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