sabato 5 settembre 2009

Racconti di Enzo Gancitano

Salvatore Gancitano, detto Enzo, è autore di numerosi libri su Mazara del Vallo, divenuti, ormai, una pietra miliare nell'ambito della scarna letteratura che si occupa della nostra storia patria. Ogni tanto si diletta anche scrivendo poesie e racconti. Vi propongo alcuni suoi scritti d'ambiente e sapore mazarese.

Di pasta antica
Seduto su una sedia di paglia, volgeva lo sguardo sul mare mutevole, antico e pur sempre nuovo, e meditava sulla variabilità dei comportamenti umani in questi decenni del cinquanta e sessanta dopo il Novecento. Avanti negli anni, non voleva e non poteva conformarsi all’evoluzione dei tempi. Ma che evoluzione, che progresso! La nuova epoca era la morte, la scomparsa delle buone maniere di vita, dei detti e proverbi contenitori di verità, dei modi di dire, delle consuetudini. Rimembrava gli atteggiamenti di alcuni decenni prima, quando il rispetto verso le persone adulte, ed ancor di più verso quelle anziane, sia nel mondo contadinesco che in quello della marina, lo si manifestava con il “vossia”, abbreviazione di vostra signoria, costumanza utilizzata originariamente per i nobili, i signorotti, i proprietari, etc. e in seguito estesa ai canuti anziani. Oh sì, è vero, lui era fissato con questo prefisso, sinomino di stima, di riverenza, di ossequio.
Ricordava con rimpianto le epoche, ahimè consumate ed obliate, allorchè ci si rivolgeva ai genitori, ai nonni, agli zii e agli adulti in genere con la massima deferenza del vossia. Sì, sarà puro formalismo, ma non si dice che la forma è l’anticamera della sostanza ? Non sopportava, pertanto, che i suoi figli conversassero con lui rivolgendoglisi con il tu. Si erano annullati secoli di buone maniere. Non c’era modo di farglielo intendere a quei suoi tralci benedetti che, con il sorriso sulle labbra, gli rimproveravano affettuosamente l’attaccamento a quelle costumanze superate, frutti della trascorsa stagione del secolo precedente. Come se il riguardo e il rispetto potessero perire con il sopraggiungere di nuove epoche, come se non fossero valori immutabili, senza fine. No, no, lui Antonino Ingrasciotta non poteva adattarsi al declino e all’imbarbarimento dei tempi. Un giovane sbarbatello, con le narici ancora piene di moccio, per la semplice motivazione, senza alcun merito, di essere suo figlio, si arrogava il diritto di dargli del tu, dimenticando il vossia e cancellando una tradizione secolare. Perché mai? No, lui non lo sopportava! Le sue osservazioni e i rimbrotti non riuscivano a rimuovere e modificare l’atteggiamento dei rampolli. Persino il fidanzato della sua figliola, buono quello!, gli si rivolgeva utilizzando un termine, segno e conferma della degenerazione e decadenza dei tempi, lei.
Lei… come se avesse cambiato sesso nella sua non più rispettata vecchiaia. Non lo digeriva quell’anonimo, glaciale, irriguardoso, spudorato, sfrontato ed impertinente lei ed aveva deciso, un bel giorno, di affrontare questo argomento con quel suo genero.
“ Nunca” (dunque), aveva iniziato, “ con questo ”lei” la dobbiamo smettere. O mi dai del vossia o mi dai del tu!”. Quello sfacciato ed insolente zito (fidanzato) della sua piccola ebbe l’ardire e la sconsideratezza di rispondere :”D’accordo diamoci del tu!”. Muto per qualche istante e livido per quella risposta inattesa, gli chiese: “Ma tu che mestiere fai?”. “Meccanico” replicò quell’ intruso ed intrigante. “Meccanico? Me lo immaginavo! Insensibile e senza comprendonio come il ferro. Tutta furrania assinnata. Tempo perso!” Si alzò e andò a scovare la quiete nel giardino tra i refoli del vento di scirocco. Tempo perso effondere la ragione all’asino quando questi vuole entrare con il deretano e non con il cerebello (la testa).Che tristezza! Quei suoi figlioli avrebbero ereditato le terre e i suoi pochi soldi, ma non il patrimonio delle tradizioni.
Di recente, tuttavia, due episodi, avvenuti al porto nuovo della città, dei quali era stato occasionale testimone, avevano acuito in primis ed alleviato in seguito questo suo cruccio e dissidio interno. Osservava, dunque, il figlio che discuteva animatamente, anche a gesti, con un anziano collega di lavoro. La sua voce nitida gli arrivava all’orecchio. Non riusciva a convincerlo. Ecco assumere, ad un certo momento, un tono più suadente: “Mi ascolti, abbia fiducia. Vossia può stare certo che il lavoro sarà completato entro pochi giorni”. Cosa ? cosa percepivano le sue orecchie? Quel figlio ingrato usava il “vossia” con un cristiano qualsiasi. All’amara osservazione paterna, avanzata più tardi, il figlio tentava di rabbonirlo:” Ma tu, cristiano sei…? Tu sei il mio genitore, sorgente senza fine di affetto, tu sei l’ artefice della vita mia e dei miei fratelli. Il “vossia” a cui tanto tu tieni è un richiamo antiquato e ci tiene distanti come estranei. E noi estranei non siamo. Noi siamo rami attaccati al tuo tronco che ancora ci nutre”. Ma Antonino, pur toccato da quella palese dichiarazione d’affetto, senza tardare, replicò : “Ma cosa credi che ai tempi del vossia l’amore fra i genitori e figli fosse scomparso o inferiore rispetto all’attuale? Tu fai violenza al passato e alle usanze del passato. L’amore rimane anche con l’utilizzazione del vossia”. Rassicurato il figlio con una pacca sulla spalla, lo informò che andava a prendere un caffè al bar lì vicino dove certamente avrebbe trovato un passaggio per casa. Sorseggiato che ebbe il caffè, dal solito sapore di bruciato, si guardò attorno alla ricerca vana di persone amiche. Lo sguardo andò a posarsi su un giovane che aveva appena bevuto il caffè e si accingeva ad uscire. Mostrava un volto rassicurante. Lo accostò e gli chiese se per caso stesse per recarsi dall’altra parte del ponte sul Mazaro. La risposta fu di quelle che gli piacevano. “Veramente no, ma se ha necessità, ben volentieri l’accompagno”. Arrivato sul ponte, con delicatezza, non volendo abusare della sua generosità e pazienza, Antonino lo informò che poteva farlo scendere lì. Ma il giovane subito riprese: “ Vossia sarà lasciato davanti alla sua dimora”. Quel gesto e quella parola illuminarono il viso di Antonino che, poggiata una mano sul ginocchio più vicino del guidatore, diede due colpi con tenerezza a mò di carezza. L’animo si era rasserenato, qualche dubbio era stato dissolto, con soddisfazione e contentezza constatava che il cordone ombelicale con le buone maniere del passato non era ancora del tutto reciso. ”Oggi hai schiarito il mio cielo scuro, figliolo. Con piacere ti dico che sei un giovane di pasta antica. Siine orgoglioso.”

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Quel burlone
Era un burlone Pippino Marrone. Non poteva fare a meno di appioppare una burla al prossimo, parente amico o estraneo che fosse. Era nel suo dna, non era in grado di sfuggire ai suoi impulsi naturali. E tutti in paese conoscevano questa sua idea ossessiva della beffa tanto da soppesare attentamente le sue parole e le sue proposte. Ma era anche uno spudorato scansafatiche, un fannullone che preferiva guardare gli altri lavorare piuttosto che sudare e ricevere i rimbrotti degli intolleranti proprietari. Questi, peraltro, quando se lo trovavano di fronte con la richiesta di lavoro, rispondevano negativamente o perché non avevano realmente lavoro da offrire o perché, avendolo, conoscevano bene quell’individuo che non amava né tollerava il sudore e il freddo rigido. La moglie Sara, pertanto, era stata costretta a cercare un lavoro da domestica per sopravvivere e per evitare un destino di letale inedia a sé e ai figli. Quando il marito tornava dai suoi tentativi di trovare lavoro con il solito insuccesso ma con la tranquilla espressione di sempre, la consorte, singhiozzando, si abbandonava alla disperazione :”E’ giusto che noi dobbiamo continuare a vivere nella povertà assoluta? Non c’è proprio nessuno, parente, amico o un santo che voglia prendere a cuore la nostra pietosa condizione?” In questi frangenti, Pippino si avvicinava a Sara, l’abbracciava e la consolava sussurrandole all’orecchio sempre le stesse parole:” Stai tranquilla, vedrai che un giorno o l’altro la buona sorte si degnerà di guardare la nostra casa”. Tuttavia la povera donna non poteva fare a meno, talvolta, di inviare delle sgridate ferme a quel perdigiorno di suo marito nell’intento, quasi sempre vano, di indurlo in qualche proficuo impegno. “Muoviti, cercati un qualsiasi lavoro, sfaticato e mangiapane a tradimento! Vai almeno per le campagne a raccattare della verdura!” Quel giorno il burlone sembrava confessato di fresco. Aveva quasi sconvolto la moglie con la sua insolita risposta: “Va bene, vado subito”. E, mistero della vita, si era immediatamente avviato, seppur con la solita scarsa lena, verso i campi. Aveva raccolto una discreta quantità di borraggine, bietole ed altre verdure commestibili tipiche della campagna mazarese quando fu sorpreso da un violento acquazzone che lo indusse a raccogliere la verdura e a cercare un riparo nei dintorni. Mentre guardava attorno si soffermava a delle considerazioni sull’inclemenza del tempo in quel mese di febbraio. “Erano quindici giorni che pioveva e il sole di oggi sembrava promettere tutt’altra giornata! Allora era proprio veritiero il detto “Frivareddu tintu tuttu, jorna longhi e misi curtu?”. (Febbraio duro tutto il mese con i suoi giorni lunghi e il mese corto). Ma ecco ad un centinaio di metri un tugurio, con una piccola tettoia sul prospetto anteriore, nel quale si portò dopo una corsa rapida per quel che gli anni e il fisico non più giovanile gli consentivano. Adagiò al suolo la verdura parzialmente bagnata, si scrollò di dosso con solleciti movimenti degli arti superiori le gocce di pioggia non ancora assorbite dagli indumenti e, mentre batteva i piedi su quell’area di terra compatta, si strofinava le mani, le braccia e il corpo. Nell’attesa che spiovesse osservò sul lato sinistro di quella vecchia e malridotta casupola una finestra parzialmente forzata. “Quanta gentaglia in questo paese! Però sarebbe più confortevole stare al riparo anche dal freddo”. Se esitazione ci fu non durò che un solo secondo. Forzò del tutto la finestra, diede uno sguardo attento in giro nel caso trovasse tra tutta quella roba “abbandonata”, sedie senza fondo di paglia, scope consunte, bastoni spezzati, zappa deformata, etc. qualcosa di utile per la sua abitazione. “Niente, proprio niente. Esistevano esseri umani, dunque, poveri come lui o anche di più”.Ma, nell’attesa che il cielo placasse la sua rabbia, continuava a rovistare fino a che il suo sguardo fu attratto dalla peculiare presenza in un angolo di un càntaru a due braccia, cioè un pitale, che un tempo veniva utilizzato per raccogliere gli escrementi intestinali e le orine che erano successivamente scaricati fuori dell’abitazione. Anche se pieno di polvere, Pippino fu attratto da quel vaso e la curiosità, che non sempre è donna, lo spinse a mettere la mano dentro. Le dita avvertirono un freddo metallico, le strinse e le tirò fuori. Era mai possibile, era vero quello che vedeva? Chiuse gli occhi e li raprì. L’immagine era sempre la stessa. Luccicanti marenghi d’oro nella sua mano! Rimise la mano piena nel miracoloso pitale e rovistò producendo un meraviglioso rumore di monete. Doveva portare l’intero vaso a casa per avere finalmente un plauso, un apprezzamento dalla sua Sara, ma quel càntaru non voleva davvero saperne di sollevarsi. Era veramente così pesante o erano i suoi muscoli delibilitati dall’esclusiva alimentazione a base di pane nero e verdura? Aumentò le sue forze, vedeva contrarsi i muscoli addominali smisuratamente ma il vaso non si staccava dal pavimento. Spossato si arrese, si appoggiò su una sedia senza fondo mandando imprecazioni contro quel maledetto vaso da notte che in maniera appropriata era stato denominato càntaru e dopo qualche minuto avvertì movimenti intestinali imperiosi. Non poteva aspettare o pensare, doveva assolutamente sedersi su quel pitale. E così fece! Adesso si sentiva decisamente bene, anche il tempo si era messo sul bello. Prese la verdura e si avviò verso casa. All’altezza della Via Salemi, quando stava per giungere all’abitazione, incontrò l’amico Cola Marino che già da un pò gli faceva cenno di fermarsi.”Ma da dove vieni così inzuppato?” Pippino, che avrebbe voluto raggiungere immediatamente il suo alloggio per cambiare l’indumento umido, rispose che veniva dalla campagna e raccontò con noncuranza l’intero accaduto con il pitale pieno di monete d’oro che non era riuscito a staccare dal pavimento. Omise la parte finale del mal di pancia per evitare che gli venissero attribuiti giudizi di comportamenti primitivi. Si salutarono. Cola si avviò verso Piazza Matteotti sorridendo. “Pensava veramente quel burlone di averlo abbindolato con le sue parole? Non lo sapeva che ormai tutti a Mazara non credevano minimamente a quello che lui diceva? Ma…, ma…, ma se fosse stato vero, se per una sola volta quel buontempone avesse detto la verità? No, non poteva essere possibile, lui Cola Marino non poteva cadere nella burla come tutti gli altri mazaresi!” Stava per giungere nella piazza dei contadini nella quale si intravedevano i soliti muli e cavalli intenti a bere dalla vasca marmorea posta a pochi metri dal passaggio a livello e si fermò. Le parole di Pippino mulinavano ancora nel suo cervello, non volevano cadere nell’oblio, cosa doveva fare per dimenticarle? “Dai Cola, smettila ! Non pensare più a quel ciarlone e sfaccendato. Non farti raggirare!” Si convinse e riprese il cammino. Attraversò lentamente i binari e si ritrovò nella piazza a lui familiare, dove trascorreva il suo tempo libero. Un piccolo gruppo di persone osservava le cassette di pesci che un pescatore aveva deposto sul marciapiede. Ancora pochi pesci da vendere, gronghi e murene. Già, i pesci lunghi, di solito grassi, è preferibile mangiarli in inverno. Dice bene il detto mazarese, Jorna curti e pisci longhi. Jorna longhi e pisci curti. (D’inverno pesci lunghi- grassi-, d’estate pesci corti- magri-). Gli ultimi acquirenti stavano acquistando con pochi soldi. Alla vista delle monete Cola si fece imprigionare di nuovo dal suo pensiero. “Ma era lecito restare con questo dubbio? E se qualche altro, al quale sicuramente quel chiacchierone avesse raccontato la sua storia, si fosse accaparrato quel tesoro? No, non poteva rimanere con questo dubbio!” Si voltò e a passo deciso si avviò verso la campagna indicatagli. Ecco il tugurio con la copertura, l’indicazione dunque era giusta e reale, ecco la finestra forzata, vi si portò innanzi, si guardò attorno, non voleva essere scambiato per un ladruncolo scassapagghiaru e arrobbapoviri, nessuno alla vista e prontamente si introdusse in quel fabbricato fatiscente. Pressato dalla apprensione e dalla paura di essere colto in fallo diede uno sguardo rapido e in un angolo riconobbe il rustico vaso da notte di cui tanto aveva parlato Pippino.“Ma allora aveva detto la verità?!” Quello sciocco, quel ciarliero che non sa tenere tenere la lingua a riposo, ben gli sta”. Si affrettò già pregustando la sua insperata ed incredibile ricchezza, inserì rapidamente la mano, palpò qualcosa di molliccio e maleodorante… un dubbio, un atroce dubbio e la ritirò immediatamente. “Quel porco, quell’imbroglione, quel farabutto, quel fannullone… e lui stupido, stupido tre volte, come se non avesse mai conosciuto quel buono a nulla, come se la sua fama di burlone non fosse vecchia di anni. Ma gliela avrebbe fatto pagare, doveva pagare e subito!” Si scervellò ed escogitò un piano che a Cola parve ottimo. Intanto riversò tutta la sua energia per staccare il vaso dal pavimento riuscendo nell’impresa laddove quel furbacchione non aveva avuto successo e lo portò a casa. A tarda sera quando le strade erano deserte e scarsamente illuminate, Cola mise sulle spalle l’oggetto del malumore della giornata e si diresse nella vicina abitazione del burlone. Si guardò in giro. Nessuno. Come prevedeva. Adagiò davanti alla casa di Pippino quel puzzolente vaso in equilibrio instabile, appoggiato alla porta in modo tale che la mattina seguente all’apertura, il pitale, senza più appoggio, avrebbe riversato dentro la dimora il fetido escremento di proprietà di quel briccone. Alle prime luci dell’alba, Sara iniziava la consueta pulizia di casa raccogliendo l’immondizia in un secchio apposito che, prima di andare al lavoro, avrebbe svuotato in un punto di raccolta nella strada. Così si avviava a fare anche quella mattina, ma quando aprì la porta sobbalzò per il rumore, il fetore e l’enorme numero di monete d’oro abbandonandosi in un urlo primitivo. Alle grida accorse Pippino che riconosciuti il pitale, le monete e persino il suo sterco riversati sul pavimento, compiaciuto di sé, rivolto affettuosamente alla moglie esclamò: “Babba, ti l’havia dittu chi la furtuna quannu voli la canusci la casa! (Stupidella, te l’avevo detto che la fortuna, quando vuole, sa dove andare!)


Storia minima di Mazara (Fine Ottocento)
Polvere in estate e melma nerastra nelle stagioni piovose si fissavano sulle scarpe degli abitanti, ma non di tutti. Alcuni potevano immergere soltanto i piedi nudi e induriti, segno dell’indigenza dei tempi, nella mota delle strade terrose. Non altro potevano fare gli umili pescatori dall’odore di salmastro incollato sulla pelle arida, resa dal sole quasi impermeabile all’acqua di cielo. Per le strade della Mazara di fine Ottocento.Gli amministratori della città, smaniosi di eliminare l’antico, erroneamente identificato con il vecchio, demolivano, il castello, le secolari mura, i bastioni e persino le Porte. Tale scelleratezza, tuttavia, consentì l’espansione del centro abitato al di fuori delle ormai virtuali mura. I pescatori, che erano insediati nei quartieri lungo il fiume, ormai carenti, trovarono nuove sistemazioni nel nascente quartiere Transmazaro e nel territorio attorno alla Chiesa S. Maria di Gesù, congiungendosi qui alla sparuta colonia di contadini. Unione allergica, secondo la tradizione, ma la necessità supera ogni barriera. I nuovi edifici che sorgevano di fronte alle scomparse mura nord-occidentali e nord-orientali, nell’attuale Corso Vittorio Veneto, erano occupati dai contadini, jurnateri e piccoli burgisi (lavoratori a giornata e borghesi). Gli artigiani risiedevano nella Piazza Porta Palermo, nella Via Bagno, nella Via Madonna del Paradiso, nella Via Sferracavallo; i commercianti ed i professionisti prevalentemente nella Via Garibaldi. I nobili e i benestanti avevano eletto le loro abitazioni nel cuore del centro antico, Via Garibaldi, Via XX Settembre, Piazza Plebiscito, Piazzetta Santa Teresa, Via Ospedale, Via Porta Palermo, Via Bagno, Piazza Ettore Ditta, Via S. Nicolò, etc.Il lavoro, avaro e amaro, iniziava ancor prima che l’aurora svelasse i suoi colori con i contadini che raggiungevano i loro poderi mediante carretti cigolanti o tramite pazienti muli, con i pescatori che entravano nelle fragili paranze a vela dopo avere implorato il Protettore mazarese nella chiesetta di San Nicolò Regale per un ritorno senza bufere. Per assicurare il semplice sostentamento della famiglia partecipavano al duro lavoro di campagna anche le donne e al periglioso lavoro in mare anche i bambini di nove, dieci anni, senza alcun rimpianto, semplicemente perché durante la quotidiana esistenza non avevano conosciuto niente di diverso dall’assidua fatica per desiderare altro. Lavorare soltanto per vivere la vita.Nel tardo pomeriggio o al calar della sera, quando per grazia di Dio cessava il lavoro sfibrante, o nelle giornate festive e feriali quando la pioggia e le tempeste impedivano il quotidiano tormento, non pochi contadini, pescatori, operai trascorrevano alcune ore nelle bettole tra il vino, il fumo e le carte da gioco. Le bettole costituivano l’unico svago per gli appartenenti alle diverse maestranze ed erano dislocate nei vari quartieri. I pescatori frequentavano quelle della Piazza Regina, Via Mazaro ( l’attuale Via G.G.Adria), Via Bagno, Piazzetta Santa Teresa, i contadini, i pirriaturi (picconieri), li jurnateri, gli annetta fossi e i carrettieri bazzicavano le bettole di Corso del Popolo ( attuale Corso Vittorio Veneto), Via Stovigliai (l’attuale Via Dante Fiorentino), Via Roma, Via Salemi, etc.Le fatiche, le asperità del lavoro, i rimproveri e i richiami degli odiati proprietari, le amarezze del guadagno insufficiente, la delusione e la disperazione del lavoro introvabile, le contenute lamentele e i pesanti silenzi della famiglia, le tristi prospettive di un’emigrazione in terre lontane e sconosciute, il muto dolore di un altro inevitabile naufragio, la paura irriferibile di un fato implacabile sempre in agguato trovavano il naturale sfogo in quelle anguste stanze adombrate dal fumo ed impregnate dell’aspro odore del vino. Lì decantavano tristezze, afflizioni, insoddisfazioni e sconforto con l’efficace antidoto del nettare dell’oblio, non curandosi della qualità del vino e delle diavolerie dell’oste per trarne più profitto.E lì nelle bettole, tra gli avventori, dall’intelletto offuscato dai fumi dell’alcool, le grida, le incomprensioni, le ostilità e, soprattutto, le offese banali, enfatizzate dal vino, cadevano come macigni, pesi insopportabili, ingiurie da cancellare, al più presto.A passi incerti tra la fievole luce dei lampioni per le strade ormai vuote e desolate, gli ingiuriati, abbandonati i gravosi fardelli mentali nella taverna, si portavano nei “posti” limitrofi per far valere la ragione della forza fisica, luoghi appena sfiorati o non affatto toccati dai riverberi luminosi, arrè lu cozzu, nei pressi della Via Vincenzo Leto, a lu purteddru, nella Via dei Mulini (Via N. Tortorici), e nel vicolo buio, accanto e dietro la Chiesa di Santa Veneranda, che andava ad immettersi nella Via Maddalena. E in quei vicoli scuri si lavava l’onta al solo luccichio di coltelli, affondati nelle misere carni, con le grida appena sussurrate, non per il dolore tenue, non per il taglio superficiale, quanto per l’orgoglio, colpito ma non soppresso.Il fioco riverbero della luna o il plumbeo cielo erano muti e impotenti testimoni, dolenti e gementi complici di duelli rusticani. A volte cruenti. Eppure i più degli abitanti aborriva il vino ed era piuttosto inconsueto incontrare ubriachi per le strade cittadine.


La Via Goti e il Quartiere Ebraico
Nel centro antico della città, nel cuore del quartiere ebraico, tra la Piazza S. Michele e la piazzetta della reggia-fortezza del sultano Ibn Mankut, si consuma la Via Goti dagli stanchi edifici, erosi dal tempo. Il toponimo deriva dal nome Li Voti, un ebreo, abitante in questa strada che l’addetto alla toponomastica nel 1865 erroneamente cambiò in Goti. Questa via, larga circa cinque metri, ad impianto urbanistico di stile islamico, dopo lo sbocco nella Piazza Marchese, adesso Piazza Francesco Modica, un tempo, proseguiva fino a raggiungere la via Bagno e andava a respirare la salsedine marina, la sabbia rossa del Ghibli, e ad origliare il rauco grido dei gabbiani nella piazza dei pescatori. Ancora persiste, accanto all’ex cinema Diana, il vicolo che sboccava nella Piazzetta Marchese. La giudecca si estendeva dalla Via S. Antoninello fino alla Via Porta Palermo, mentre la Via Goti, un tempo denominata Via della Giudecca, ne costituiva la strada principale. Il quartiere ebraico era da considerarsi come il risultato naturale di aggregazione etnica e non di norme legislative. Pur non mancando i contrasti, la convivenza tra Ebrei e Cristiani era piuttosto pacifica. Numerosi gruppi familiari cristiani risiedevano e vivevano in armonia nella zona, come non pochi Ebrei dimoravano nei quartieri cristiani di Santa Venera e Piazza Regina. All’interno della Giudecca, inoltre, erano dislocate le chiese cristiane di San Michele, S. Egidio il Vecchio, S. Maria Maddalena, S. Maria della Neve. Segno di convivenza e tolleranza religiosa era la collocazione della sinagoga a pochi metri dalla chiesa cristiana di S. Michele. Contrariamente alla convinzione generale, la comunità ebraica era prevalentemente composta da modesti artigiani quali fabbri, muratori, falegnami, tessitori, tintori, pirriaturi (picconieri), etc. L’arte medica degli Ebrei era stata sempre apprezzata, pur tuttavia aveva ingenerato dei contrasti con la categoria dei medici cristiani quando nel 1488 la regina Giovanna aveva concesso ai medici Ebrei il privilegio di esercitare la libera professione anche presso i Cristiani. L’istanza, avanzata dai medici cristiani alla Curia vescovile, soprattutto per motivi di gelosia e concorrenza, non ebbe gli effetti sperati. La primitiva dislocazione della Jureca è da ricondursi al quartiere nordoccidentale della città, appena fuori le mura, denominato lu scurciaturi, poiché vi si scuoiavano gli animali morti. Nei primi anni della dominazione normanna (1072-1194) nacque la città murata che escluse due comunità, quella musulmana nel quartiere nord orientale e quella ebraica nel versante nordoccidentale. In questa primitiva Jureca gli Ebrei usufruivano del bagno per la purificazione delle donne, della sinagoga, dell’ospedale e del cimitero. Soltanto in un secondo tempo gli Ebrei costituirono la nuova Giudecca all’interno della città con la sinagoga, l’ospedale, la scuola, mentre il bagno (ancora per poco) e il cimitero conservavano la loro ubicazione originaria. Intorno alla metà del XV secolo la comunità giudaica chiese ed ottenne che il lavatoio fosse trasferito nel centro della città e, precisamente, nella piazzetta Bagno. Non mancò il malcontento dei Mazaresi che inviarono invano, nel 1445, una protesta al re Ferdinando chiedendone la chiusura, poiché lo ritenevano causa di epidemie, lebbra e malattie oftalmiche. Il cimitero, rimase sempre, fino alla loro espulsione, nel quartiere dello scurciaturi. Il 31 marzo 1492 Ferdinando il Cattolico emise l’editto d’espulsione degli Ebrei. L’ordinanza imponeva l’abbandono dell’isola e la confisca dei beni nel caso di mancata conversione o di permanenza. L’accusa d’eresia e di eccessiva usura a danno dei Cristiani costituiva, in verità, un pretesto per giustificare l’intento economico dell’appropriazione dei beni ebraici al fine di infondere linfa vitale alle debilitate finanze spagnole. La curia regia, infatti, s’impadronì delle terre, delle abitazioni, delle botteghe, degli armenti e persino dei gioielli e degli schiavi, nel caso di famiglie facoltose. Gli Ebrei che non accettarono l’abiura, abbandonarono la terra natia di Mazara il 12 gennaio 1493. Anche se la conversione al Cristianesimo consentiva la salvaguardia della vita e dei beni, non furono molti coloro che l’accettarono per convinzione o per opportunismo. Non si conosce il numero di quanti, convertiti, restarono a Mazara, ma di certo la lettura del registro notarile di Andrea Polito evidenzia un drammatico susseguirsi di atti di vendita di edifici e terreni ebraici, a prezzo irrisorio, a nobili e semplici cittadini mazaresi che incrementarono facilmente le loro ricchezze. Se la scuola, l’ospedale e, persino, la sinagoga furono venduti, il numero di coloro che scelsero la permanenza non dovette essere ragguardevole. La maggior parte degli Ebrei mazaresi preferì abbandonare la terra natia piuttosto che abiurare, portando “una sola veste, una copertina di lana, un paio di lenzuola usate, poche vettovaglie per il viaggio e tre tarì”.Secondo l’editto d’espulsione. L’allontanamento degli Ebrei disastrò l’economia mazarese, tanto che si rese necessario, nel periodo immediatamente successivo, la riduzione della gabella delle carni per consentirne l’acquisto ai cittadini. Scomparvero alcune attività artigianali e commerciali esercitate dagli Ebrei e sopraggiunsero quartieri disabitati, officine e botteghe chiuse, terre abbandonate in nome di un’intolleranza insensata. Ma i supplizi per i pochi Ebrei cristianizzati non erano ancora arrivati alla fine. L’8 novembre 1500 il bando dell’inquisizione imponeva altre crudeltà. Non erano stati sufficienti, dunque, i tributi iniqui per la loro condizione di Ebrei, la rinuncia al credo religioso e la coatta scelta di una religione che non era quella degli avi, la perdita della identità ebraica persino nel nome latinizzato, adesso le autorità dell’inquisizione sollecitavano i concittadini cristiani alla delazione, anche falsa, dietro compenso. In questo periodo del XVI secolo nacque il ghetto poiché fu imposto agli Ebrei di vivere nel loro quartiere, inteso non più come libera scelta residenziale. Gli Ebrei della città del Mazaro, cristianizzatisi non certo per fede, ma solo per necessità, non poterono essere dei buoni cristiani, oltre a non essere stati dei buoni ebrei, e non poterono eliminare, ex abrupto, le loro usanze religiose e le tradizioni. Alcuni non ne furono capaci pur tentando, altri si rifiutarono di farlo accettando persino la condanna al rogo. Soltanto nel 1782 fu posta la parola fine. Chi si sofferma oggi, nella Via Goti o in un vicolo qualsiasi della Giudecca diruta, avverte un silenzio profondo, figlio della solitudine e dell’abbandono, un silenzio antico di secoli, forse lo stesso che accompagnò gli Ebrei nel loro viaggio senza ritorno.

I defunti e i sepolcri
Un mare di fiori sui sepolcri. Anche sulle lapidi più remote emerge un fiore. Folle in silenzio, preghiere sussurrate, contenute e sporadiche lacrime, saluti accennati, scale metalliche a sostituire l'ormai antico grido dei fanciulli, a cùavà cchiantà, a cù avà scippà, nei primi due giorni di novembre. Diceva il Foscolo: ”All’ombra de cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro ?” Il Foscolo non considerava che l’anima potesse avere un futuro. Riteneva, infatti, che il destino dell’uomo fosse il nulla eterno. Ma per gli abitanti del Mazaro, con la fede cristiana fortemente radicata, il culto della memoria dei morti e dei sepolcri è una costumanza decisamente sentita poiché conferisce una pietosa illusione di mantenimento di un legame d’affetto tra vivo e defunto. I vivi parlano ai morti, discorrono con i defunti in un doloroso soliloquio e il silenzio sono le parole di risposta degli estinti. Un’antica gloria musulmana di questa landa mazarese, Ibn Rasiq, s’interroga diversamente dal Foscolo: “Ho chiesto alla terra perché era un luogo di preghiera e perché era per noi un luogo che rende puri e buoni.  Rispose senza parlare, perché ho accolto per ognuno una persona cara”. Le prime tombe riscontrabili nel nostro territorio si riferiscono all’età del rame.(3° millennio a.C.). Ma qui pervade solo il silenzio come pace e senso di abbandono. A Roccazzo, poco distante dal centro abitato, è ancora visibile una necropoli. Le tombe sono del tipo a grotticella, cioè scavate nella roccia e chiuse da un blocco monolitico. Ognuna di esse conteneva uno o due inumati in posizione anatomica e con un corredo funerario di due tre vasi e strumenti litici. Sempre a Roccazzo, furono trovati altri sepolcri, meno rudimentali, con dromos d’accesso con antecella. Ma le necropoli preistoriche, note ed ignote, sono numerose nel nostro territorio: Granatelli (necropoli greca), Fiumara, San Cusumano, Roccolino Soprano, Spataro, Gattolo, Malopasso, Archi, Castelluzzo sul Mazaro, etc. Anche qui silenzio come distacco, defezione. E’ il culto dell’ abbandono, il nuovo credo dei Mazaresi. Del periodo romano esistono quattro sarcofagi conservati nella Cattedrale. Erano destinati ad accogliere, in genere, i corpi di due coniugi. Il sarcofago con la raffigurazione del mito di Endimione era il più richiesto in quanto simboleggiava l’amore eterno. Il mito, rappresentato in più versioni, riporta la vicenda del bellissimo pastore Endimione, del quale s’innamora Selene, la dea della Luna, dopo averlo visto addormentato sul monte Latmo, in Asia Minore. Per potere godere di questa visione ogni notte, Selene gli elargisce sonno e giovinezza eterni. E l’unione e l’amore persistono eterni nell’indelebile pensiero degli abitanti del Mazaro, dai Musulmani definito il fiume spiritato. Nel medioevo i defunti potevano essere seppelliti all’interno della città. Ma, quando i Normanni costruirono le mura di Mazara, restarono esclusi dal centro abitato il cimitero degli Ebrei, collocato nella parte nordoccidentale della città, precisamente nell’attuale Piazza Dante Fiorentino e il cimitero dei Musulmani nella parte orientale della città e, più esattamente, nel lungomare San Vito, nella Via Valeria, denominata un tempo la campagnedda e nella quale fino a qualche decennio fa non era raro il rinvenimento di ossa umane. Ma anche nell’attuale Corso A. Diaz sono stati ritrovati resti umani attribuibili ai usulmani. Due lapidi funerarie arabe sono state recuperate a Mazara. La prima presenta l’iscrizione: “Nel nome di Dio pietoso e benigno, benedica Iddio al nostro signore Maometto e alla sua stirpe e dia lor pace. Dì: cotesto è annunzio grave dal quale voi rifuggite. Questa è la sepoltura del cadì della capitale Abu abd Allah Muhammad di Costantina, il quale è morto, che Iddio abbia misericordia di lui, il giorno di venerdì, del mese di… dell’anno 894. Dov’è la mia terra.(?) ahimè”. Si ricorda che la città rimase sotto la dominazione araba dall’827 al 1072. La seconda lapide funeraria mostra l’iscrizione: “In nome di Dio pietoso e benigno. Benedica Iddio al profeta Maometto e alla sua stirpe e lor dia pace. Ogni anima dovrà assaporare la morte. Voi non conseguirete i guiderdoni che il dì della resurrezione. Allora chi sarà tratto lungi dal fuoco e introdotto nel paradiso, ei fia salvo. La vita di quaggiù non è che merce d’inganno. Questo è il sepolcro di Sidad al Ahl, figliola di Abd al Azir, il cambiatore del popolo di Mazara, la quale è morta di venerdì, nel mese di rebì primo, dell’anno 474”. Cioè dal 9 agosto al 7 settembre 1081, quando la città era già da nove anni nelle mani dei Normanni. Il cimitero attuale, luogo del riposo eterno, fu costruito nei primi anni del Novecento per volere del sindaco Vito Favara. Le lapidi più antiche, infatti, risalgono ai primi anni del ‘900. Precedentemente il luogo di sepoltura dei cadaveri era localizzato dietro la chiesa Madonna del Paradiso. Sepolture avvenivano anche nelle chiese Santa Maria di Gesù, San Martino (Cappuccini), San Francesco, etc. Anticamente, nella chiesa Santa Maria Raccomandata, quasi di fronte al sacro tempio di Santa Caterina, venivano seppelliti gli schiavi. Tutte le chiese erano autorizzate alla sepoltura dei religiosi e in alcuni casi, dietro consenso dell’episcopo mazarese, anche dei nobili e degli appartenenti alle confraternite. Sepolture nella nuda terra si eseguivano a nord della Xitta, cioè nella parte nord-orientale della città, dietro le mura, come Via Giovan Battista Adami, per la gente non benestante o semplicemente povera. Niente di nuovo sotto il sole. Ma per quest’ultimi è sempre stata vera la consolazione, come oblio della disperazione, dell’esistenza terrena come vita di passaggio.
Come nella lapide musulmana: La vita di quaggiù non è che merce d’inganno.

Piazzetta Francesco Modica
(un'altro scrigno di storia non conosciuta)
Nell’XI secolo Mazara era una città musulmana non solo per la prevalenza della popolazione a religione maomettana, ma anche per il suo impianto urbanistico a stile islamico.Il decorso tortuoso delle strade, suddivise in assi principali (shari), Via Porta Palermo e Via Bagno, nelle vie secondarie (durub) e nei vicoli a fondo cieco (azikka), aveva una finalità non estetica, ma di difesa dall’attacco nemico, con la limitazione del flusso di traffico dal centro alle estremità. A Nord era dislocata la Porta Palermo (Bab al Balarm) che conduceva alla Porta del Fiume (Bab al Wadi) e alla Porta Cartagine tramite la Via Bagno. Attraverso la Via Porta Palermo si raggiungeva la Muschita Magna, costruita nei pressi della chiesa bizantina, nell’attuale piazza della Repubblica, con il minareto dalla cui sommità il muezzin invitava più volte al giorno i fedeli alla preghiera. Ma le moschee nella città del Mazaro non dovevano essere poche poiché aveva ampia applicazione l’insegnamento di Maometto : “ A colui che costruisce una moschea, sia pure piccola come la buca che l’uccello qatà (pernice) scava nel terreno per la cova, Allah gli costruisce una dimora in Paradiso”. Ed ancora Maometto: “Nell’ora della preghiera, devi farla là dove ti trovi: là è la moschea”. Oltre alla Muschita Magna, quindi, altre moschee sui siti dell’attuale Chiesa San Nicola e della Chiesa Sant’Agostino. Ma se i successivi dominatori Normanni costruirono templi cristiani sulle moschee, non risulta azzardato ipotizzare altre moschee preesistenti alle chiese normanne di San Biagio (San Francesco), Santa Venera, San Vito a Mare, San Michele, San Nicolò Regale, etc. La Via Porta Palermo conduceva anche al mercato maggiore della città in Piazza Chinea, ma soprattutto nella reggia fortezza del principe Ibn Mankut, signore di Mazara, Trapani, Marsala, Sciacca e dei centri minori della Sicilia Sud-Occidentale. In questa piazzetta trascurata insisteva,dunque, il centro politico, militare e culturale della città. La reggia mazarese, infatti, comprendeva come tutte le corti musulmane dell’Africa, della Spagna e della Sicilia, un cenacolo di diecine di poeti e letterati che godevano dell’ospitalità, di lucrosi compensi e privilegi politici. A Siviglia, nella reggia del principe- poeta Al–Mùtamid, soggiornava un gran numero di eruditi tra i quali il poeta siculo- musulmano, Ibn Hamdis, nato a Noto. A Qairawan, capitale dell’Ifriqiya, un centinaio tra poeti e scrittori dimorava nella reggia di Al- Mu’izz, tra i quali Ibn Rasiq e Ibn Safar. Gloria di quel cenacolo culturale mazarese era la presenza del maggiore poeta e letterato del mondo arabo dell’epoca, Ibn Rasiq che aveva spodestato in terra d’Africa Ibn Safar nelle preferenze e simpatie del principe Al-Mui’zz. Spossato dalle guerre civili in Africa, sconfitta l’innata paura per i viaggi in mare, Ibn Rasiq raggiunse la serena e dotta Mazara, accolto trionfalmente dal principe Ibn Mankut che lo riappacificò al poeta rivale Ibn Safar, giunto nella città del Mazaro qualche anno prima. Lo stesso sultano, poco tempo prima, aveva dovuto allontanare a malincuore dalla castigata ed erudita Mazara il letterato Ibn Al-Birr, con il suo seguito di discepoli, ritenuto capo e guida della scuola filologica siciliana, poiché lo studioso si dimostrava più seguace di Bacco che delle norme del Corano che vietano l’assunzione del vino: ““Vai a Palermo, dove il vino è tollerato e vi abbonda”. Tra i profumi di arancio e gelsomino, la sottile sabbia rossa del Ghibli, il rauco grido degli alcioni lungo il fiume spiritato, Ibn Rasiq accrebbe la sua vasta produzione poetica e letteraria, non integralmente pervenuta, nella quale si riscontra anche una cronaca storica della Sicilia musulmana del’epoca, Al-Umdah (La colonna).Rimase a Mazara per una decina di anni, fino alla morte avvenuta nel 1071, qualche anno dopo avere composto il canto funebre per il suo protettore Ibn Mankut ed un anno prima che la città cadesse in mano ai Normanni. Le sue spoglie mortali giacciono sperdute davanti alla costa orientale mazarese. Il toponimo attuale ricorda il sindaco Francesco Modica, deceduto il 2 maggio 1962 nell’aula consiliare durante una riunione di Giunta. La precedente denominazione Piano del Marchese rievoca il Palazzo del marchese Milo, edificato su una parte delle rovine della reggia fortezza. Adesso silenzio ed abbandono. Sic transit gloria mundi. Così passa la gloria del mondo. O, se volete, mala tempora currunt, sed peiora parantur. Corrono brutti tempi, ma si preparano tempi peggiori

Il lungomare come e quando nasce
La conformazione attuale della passeggiata a mare si può far risalire all’epoca normanna quando la città fu circondata da mura per la difesa delle incursioni piratesche. Il lungomare mostrava una graduale e naturale pendenza verso il mare similmente a quel tratto odierno nei pressi della Chiesa di San Vito. Intorno al 1850 il Decurionato, corrispondente alla amministrazione civica di oggi, deliberava la collocazione di una doppia fila di alberi fuori della Porta del SS Salvatore, luogo di pubblico passeggio, da sempre frequentato dai cittadini. Così come adesso appare. Dopo qualche anno fu realizzata l’edificazione della banchina del Lungomare utilizzando una parte della somma che il Vescovo Scalabrini, alla sua morte avvenuta nel 1842, aveva lasciato alla città per la costruzione del porto, allo scopo di risollevare la critica situazione economica mazarese. Anche allora i cittadini anteponevano la vanità alla necessità. Nel 1865 con l’abbattimento delle mura della città il Lungomare assumeva l’attuale aspetto. Gli edifici abitativi, costruiti sull’area delle mura demolite, per i primi decenni del Novecento, non potevano avere la porta d’ingresso dal lato della passeggiata a mare per non deturpare l’incantevole attrattiva del luogo. Vigeva, allora, una commissione di vigilanza al fine esclusivo di evitare deturpazioni ambientali. I precedenti toponimi del Lungomare erano Viale Garibaldi e Viale dell’Impero. Fino a qualche decennio fa il viale era attraversato dalla fumosa paparedda, una locomotiva che rimorchiava vagoni stracolmi di zibibbo di Pantelleria, scaricato lungo la banchina di levante dai bastimenti provenienti dall’isola del cappero.


Via Ospedale Vecchio

Una strada stretta, nel quartiere medievale della Xitta, al nord della città dai tre ai quattro metri, a decorso tortuoso, dall’inconfondibile stile islamico, dall’odore di vecchio e di chiuso, quasi tanfo. Il sole penetra, ma non invade né infastidisce il raro passante. Il silenzio pervade, intimorisce, come se dovesse essere violentemente rotto all’improvviso e, forse, l’unica evidente manifestazione di vita sono i verdi cespugli ai bordi della strada asfaltata. Ma, anche se il presente è oscuro e irrilevante, questa strada ha un passato antico e glorioso. Il toponimo, infatti, richiama e ricorda l’ubicazione in essa del primo ospedale della città nel 1384, voluto dal vescovo Giovanni La Rosa. Accanto all’ospedale era collocata la chiesa di Sant’Egidio il Vecchio (da non confondersi con l’attuale chiesa di Sant’Egidio il Giovane, adibita a museo del Satiro).Tale sacro tempio, esistito fino al 1574, costituiva la dimora, sin dal periodo normanno, del primo episcopo mazarese Stefano di Rouen, cugino del conte Ruggero, e dei successivi pastori della Chiesa di Mazara, nonché la sede del Seminario. Una strada gremita, dunque, un contenitore immenso di storia medievale. Successivamente, per avvicinare la dimora vescovile alla Cattedrale, il Palazzo Vescovile fu temporaneamente trasferito nell’area dell’attuale Istituto Sant’Agnese e nel 1584, per decisione del vescovo Bernard Gasch, fu costruito l’attuale Palazzo Vescovile sui resti del palazzo-fortezza dei Chiaramonte, signori di Mazara. Per quanto riguarda il Seminario, da questa ubicazione angusta fu trasferito nel Piano Maggiore (piazza della Repubblica) nei locali abbandonati del monastero e della chiesa di Santa Chiara, collocati fra il Palazzo dei Chiaramonte e la Chiesa di Santa Caterina. Infine, nel 1710, il Seminario attuale fu iniziato nel lato orientale che guarda l’Ecclesia Maior e completato successivamente ad opera di più vescovi. Il secondo ospedale fu costruito nel 1657 tra la chiesa di S. Vito in Urbe e la Piazza Chinea, nell’attuale Via Ospedale, ed abbandonato in seguito al terremoto del 1968. Nel periodo medievale, una associazione di volontari, la “Congrega delle Cinque Piaghe o Congrega dell’Immacolata o dello Spedale” si dedicava al trasporto degli ammalati dalle loro umili abitazioni in ospedale e alla ricerca e somministrazione di medicine ed alimenti. La sede della congrega era ubicata presso la chiesa di Sant’Andrea vicino alla Porta del Fiume e, nel 1589, fu trasferita presso la chiesa di San Giorgio, edificata dalla colonia dei Genovesi, nell’attuale Piazza Immacolata. Intorno agli anni ’50 del Novecento la Via Ospedale Vecchio fu sprezzantemente e riprovevolmente denominata “ la strata di li fimmini tinti” per l’apertura di una casa di tolleranza. La via adesso è un quartiere silente, fatiscente e obliato. Sic transit gloria mundi! Così passa la gloria del mondo !


Vicolo Vipera
Immaginate Mazara nel 1800. Una città murata, con le sue porte. Di queste, con il passare degli anni, una sola assolveva la funzione di ingresso e di uscita dalla città, la Porta Palermo, dai Musulmani denominata Bab al Balarm. Durante la notte restava chiusa e un addetto svolgeva l’incarico di apertura, chiusura e custodia. Tuttavia i ritardatari e coloro che arrivavano nelle ore più buie, al suono della campanella, riuscivano con un sorriso, un’affabile richiesta e, soprattutto, con una ricompensa furtiva, ad avere assicurato l’ingresso nell’urbe. Quando mancava l’illuminazione naturale delle giornate estive, la città era nel buio più profondo per cui coloro che si introducevano irregolarmente si munivano di un lanternino. La sorveglianza notturna era assicurata da due rondieri e un lanterniere. Soltanto! Se ne deduce che la fuga dalla città, a necessità, era alquanto facile. Si era nel periodo borbonico… Uno degli ultimi custodi, anzi proprio l’ultimo, fu un certo mastro Michele Provenzano, che abitava nel Vicolo Vipera, che in quel periodo era denominato Vicolo Provenzano, a pochi passi dalla Porta. Era consuetudine, infatti, attribuire alle strade, senza particolari monumenti o chiese, il nome di un abitante, solitamente il più importante. Il Vicolo Vipera, cosi denominato per il suo percorso sinuoso, conserva la pavimentazione con il lastricato medievale con ciottoli a riquadri. Unico esemplare della città, ma uno dei tantissimi esemplari di impianto urbanistico tipicamente islamico. L’edicola votiva, costante e cospicua presenza nelle strade della città, in particolare del centro antico, è un segno inconfutabile della religiosità dei cittadini, dei ceti popolari innanzitutto. Gli abitanti dei secoli scorsi, fino ai primi decenni del Novecento, solevano manifestare la loro devozione religiosa con l’edificazione di questi piccoli templi, detti anche “chisioli o fiureddi “, con l’esplicito o celato intento di richiesta di protezione divina per l’edificio e i residenti e di creazione di un luogo di meditazione e preghiera. Negli ultimi decenni, invece, il sentimento religioso sembra smarrito o affievolito. Nei nuovi quartieri, infatti, distanti dal centro antico, le edicole votive sono quasi del tutto assenti. La riduzione del numero delle edicole è dovuta alla demolizione e ricostruzione degli edifici, appartenenti ai ceti più umili che, al presente, trascurano i tempietti murali. Adesso si assiste, qualche volta, alla costruzione di edicole votive all’interno delle abitazioni, in specie, sulle pareti adiacenti alle scale. Nonostante la rimozione di diverse edicole, ne sopravvivono tra le strade del centro antico circa cinquanta, facilmente rinvenibili all’occhio attento e non frettoloso. Non sono poche, ma erano molte di più un tempo. Basti pensare che una delle ipotesi della denominazione della Via Settevanelle, una strada stretta e breve che congiunge la Via Santa Caterina alla Via Sant’Antoninello, è la presenza nella zona di ben sette edicole votive. Perfino nelle vecchie cave per l’estrazione di conci di tufo, inoltre, non è raro riscontrare, ancora oggi, edicole votive, come nella contrada Miragliano. I nobili, invece, riportavano sull’esterno degli edifici, agli angoli della parte più alta, raffigurazioni in pietra dura di Arpie, come nella Via Garibaldi, piuttosto che i tempietti. I signorotti dell’Ottocento, infatti, solevano o tentavano di acquietare il loro timore degli spiriti maligni con le suddette figure lapidee. E’ probabile che tale tradizione derivi dalla antica Grecia, dove, ancora oggi, prevale la remota consuetudine di porre agli angoli delle abitazioni statuette raffiguranti le antiche divinità, soprattutto Minerva, per augurare la costante presenza di sapienza e saggezza. Le edicole sono dedicate, in prevalenza, alla Madonna, a Gesù Bambino, a Gesù Crocifisso, alla Sacra Famiglia (Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù), a San Vito e in minor numero agli altri santi, Santa Lucia, Sant’Antonio, etc.

Edicole Votive e indulgenza
Alcune edicole votive riportano la concessione di indulgenze da parte dei vescovi della diocesi mazarese. Un tempo era abituale incontrare persone in sosta davanti all’immagine sacra. Adesso si sconosce l’esistenza delle edicole votive.
Nella Via Garibaldi, a pochi metri dallo sbocco nel Piano Maggiore, quartiere abitato, un tempo, dai nobili, professionisti, ecclesiastici, commercianti, trovasi un’edicola votiva dedicata alla Madonna Addolorata. Il 2 maggio 1833, per volontà del vescovo Scalabrini, nello spazio sottostante fu murata una lapide marmorea che riporta la concessione di una indulgenza di quaranta giorni ai devoti che recitano una Salve Regina all‘immagine, ormai molto sbiadita, della Madonna Addolorata. Ecco il testo:
"CHI DIVOTAMENTE RECITERA’UNA SALVE REGINA  A QUESTA IMMAGINE DI MARIA SANTISSIMA ADDOLORATA GUADAGNERA’ 40 GIORNI D’INDULGENZE CONCESSE DALL’ILL.MO E R.MO MONSIGNOR FR. D. LUIGI SCALABRINI VESCOVO DI MAZARA"
A 2 MAGGIO 1833

A conferma della vivace religiosità dei cittadini di allora, esattamente un secolo dopo, i fedeli posero un’altra lapide sotto la prima:
I FEDELI NELLA RICORRENZA DEL 1° CENTENARIO DELLA FONDAZIONE VOLLERO RIEDIFICARE
2 MAGGIO 1933


Nel Transmazaro, quartiere abitato da pescatori, precisamente nella Via Pantelleria, è posta una edicola votiva, dedicata alla Madonna del Paradiso. Accanto è collocata una lapide con la concessione di indulgenze ai fedeli che rivolgono una prece alla Madonna:
S. EM. IL SIGNOR CARDINALE ERNESTO RUFFINI AMMINISTRATORE APOSTOLICO DI MAZARA CONCEDE 300 GIORNI DI INDULGENZE A CHI RECITERA’ DINANZI A QUESTA IMMAGINE UN’AVE MARIA

Nella Piazza Santa Maria di Gesù, quartiere occupato, in prevalenza, da contadini, ed in minor numero da pescatori, su una parete di un edificio cittadino, accanto alla chiesa dei nobili, dal prospetto in stile aragonese, è posta, quasi occultata, un’edicola votiva dedicata a Gesù Crocifisso. Sottostante, è collocata una lapide marmorea, frammentata, che riporta la seguente iscrizione:
SUA ECCELLENZA REVERENDISSIMA MONSIGNOR NICOLO’ AUDINO VESCOVO DI MAZARA CONCEDE 50 GIORNI DI INDULGENZA UNA VOLTA AL GIORNO A CHI DEVOTAMENTE RECITA UN CREDO DAVANTI L’IMMAGINE DI GESU’ CROCIFISSO
MAZARA 3 MAGGIO 1905 P. R. DI GIUSEPPE RALLO


Nel Piano Maggiore, ora Piazza della Repubblica, all’estremità destra del portico sotto il seminario, prima della fontanella e della Via Dell’Orologio, è situata un’edicola, trascurata e, più probabilmente, non conosciuta dai cittadini. Questo tempietto, innalzato per volere del vescovo Stella nel 1746, mostra l’immagine della Madonna delle Campane o Santa Maria della Tosse. Davanti a questa immagine prodigiosa, ai primi colori dell’aurora e nell’ora dell’avemaria, si recavano per tre giorni consecutivi gli anziani affetti da malattie catarrali e i bambini sofferenti di pertosse. Dopo le rituali preghiere e le immancabili richieste di guarigione, gli ammalati tornavano nelle loro dimore sollevati e fiduciosi. Già nel 1700, per volere del vescovo Castelli, erano concesse indulgenze, confermate, in seguito, dal vescovo Ugone Papè, a coloro che recitavano una preghiera davanti a questa edicola votiva

E adesso… Edicola di via Garibaldi
Questa edicola votiva trovasi nella Via Garibaldi a pochi metri dallo sbocco nel Piano Maggiore. Per volontà del vescovo Scalabrini, il 2 maggio 1833, nello spazio sottostante fu murata una lapide marmorea che riporta la concessione di una indulgenza di quaranta giorni ai devoti che recitano una Salve Regina all‘immagine, ormai molto sbiadita, della Madonna Addolorata. Ecco il testo:
"CHI DIVOTAMENTE RECITERA’UNA SALVE REGINA A QUESTA IMMAGINE DI MARIA SANTISSIMA ADDOLORATA GUADAGNERA’ 40 GIORNI D’INDULGENZE CONCESSE DALL’ILL.MO E R.MO MONSIGNORFR. D. LUIGI SCALABRINI VESCOVO DI MAZARA"
A 2 MAGGIO 1833


Esattamente un secolo dopo i fedeli posero un’altra lapide sotto la prima:
I FEDELI NELLA RICORRENZA DEL 1° CENTENARIO DELLA FONDAZIONE VOLLERO RIEDIFICARE
2 MAGGIO 1933

Quando è stata costruita l’edicola votiva la strada era conosciuta come Via Maestranza. Soltanto qualche giorno dopo la morte di Giuseppe Garibaldi, giugno 1882, l’amministrazione comunale intestò la via al condottiero dei garibaldini. A distanza di più di un secolo la maggior parte dei cittadini, però, continua a denominare Via Maestranza la strada in questione. Una strada breve e stretta, ma ricca di maestranze locali e di edifici nobiliari, appartenenti ai D'Andrea, Scuderi, Burgio, marchese Favara Verderame, principe Maccagnone di Granatelli. E, in questo momento di festeggiamento del 150° dell’Unità d’Italia, è bene ricordare che, a metà circa della strada sulla destra, è posta una lapide che ricorda l’ubicazione della farmacia Di Giorgi, dove dal 1848 in poi, durante il periodo borbonico, si riunivano i liberali mazaresi. Riportiamo alcuni nomi: i fratelli Giuseppe e Carmelo Domingo, Natale Dado con i figli Gaspare e Raffaele, GiovanBattista Lombardo, notaio, Abramo Pipitone, maestro, Angelo Macaddino, Natale Castelli, medico, Salvatore Giliberti, medico e letterato, Mario Certa, Antonino Oca, Mario Saffiotti, legali, Gaspare Nicolosi, Diego Sansone, Vincenzo Napoli, Vincenzo Alestra, il farmacista Di Giorgi etc. Partecipavano alle riunioni anche liberali forestieri in esilio a Mazara o semplicemente di passaggio, come Abele Damiani di Marsala, Sangioacchino di Trapani, i fratelli Ugdulena di Palermo, F. Bentivegna e Giacomo Curatolo. A molti di questi liberali sono intestate strade di Mazara, ma nei cittadini rimangono dubbi sull’identità dei nominativi, giacché quasi tutte le targhe viarie sono mancanti di una didascalia chiarificatrice. Nella farmacia Di Giorgi si trattavano le situazioni politiche grazie alla lettura dei giornali inglesi, portati da Mattia Klarkson, proprietario di una fattoria vinicola. Ma a pochi metri, nella vicina Via Itria, trovavasi la Sottintendenza che, tramite una rete di spie, era sempre informata delle riunioni e del loro contenuto. Quasi tutti i liberali mazaresi subirono catene, carcere ed esilio.
Qualche metro prima dello sbocco nella Piazza Chinea la Via Garibaldi presenta la Piazzetta Villani. Il toponimo deriva dal nome dei proprietari che costruirono l’attuale palazzo intorno al 1883, probabilmente dopo avere acquistato alcuni magazzini dai principi Pignatelli. Il piccolo slargo era pre-esistente con il nome di Piazzetta Burgio, per la presenza dell’antico palazzo Burgio, esattamente antistante nella Via Garibaldi.

Via Carmine
Là dove c'erano i Cavalieri di Malta e i Padri Carmelitani
Una strada di un centinaio di metri, lastricata di blocchi di pietra dura, che odora ancora di antico e di medievale negli edifici pubblici e nei sacri templi, posti a tacere dal tempo e dalle decisioni dell’uomo, non sempre guidate dalla sapienza. Un silenzio vetusto quasi mistico, confortato un tempo dalla presenza di quattro templi sacri, rotto dal passaggio di saltuari veicoli che solitamente prediligono il percorso parallelo del lungomare. Un altro scrigno di storia occultata o taciuta, sconosciuta ai più dei cittadini, è questa strada delimitata dalle mura meridionali fino a poco più della metà dell’Ottocento. Il toponimo deriva dalla presenza del Convento dei Carmelitani e della Chiesa Maria SS. Annunziata, volgarmente conosciuta come Chiesa del Carmine, edificata ad opera dei carmelitani Pompeo e Bartolomeo Ragusa nel 1580, circa due secoli dopo la creazione del Convento. Ma altre voci attribuiscono al 1155 l’origine del Convento. Pare, comunque, che la primitiva collocazione dei Carmelitani fosse nei pressi della Via Sant’Antoninello, la stretta via, parallela al Corso Umberto 1°, dove si ergeva la chiesetta Sant’Antoninello, protettore, appunto, dell’ordine dei Carmelitani. In quest’angusta strada, infatti, come continuazione e conservazione della tradizione, è collocata una edicola votiva dedicata alla Madonna del Carmine. L’atrio del convento, di forma quadrangolare, presenta venti pilastri di duro tufo calcarenitico, cinque per ogni lato, e venti archi a tutto sesto che delimitano i portici-corridoio. Fu sede di una scuola d’insegnamento, stimata in tutto il territorio e per il corpo insegnanti qualificato e per la possibilità di accesso anche alla gioventù laica mazarese, a differenza degli altri ordini religiosi. Quando, però, il Collegio dei Gesuiti, in Piazza Plebiscito, aprì un centro di studi, divenuto famoso in tutta la Sicilia occidentale ed abilitato anche al conferimento della laurea in filosofia e teologia, la scuola del Convento dei Carmelitani cadde in disgrazia. A nulla servì, nel 1797, il tentativo del nuovo priore Angelo Maria Pugliese, fratello dell’abate Vito Pugliese, autore dell’opera Selinunte Rediviva, di ridare alla scuola l’antico splendore. La biblioteca del Convento dei Carmelitani era rinomata per il cospicuo numero di volumi, manoscritti e codici rari che purtroppo andarono perduti durante i moti dei fasci dei lavoratori mazaresi nel dicembre 1893 e gennaio 1894, quando fu appiccato il fuoco in alcuni locali del Collegio dei Gesuiti che contenevano duemila volumi provenienti dai conventi della città. Nell’anno 1612, in un periodo nel quale fiorivano le confraternite, favorite dal vescovo mazarese Marco La Cava, con il fine di mutuo soccorso fra le varie categorie artigianali, i contadini e i borghesi fondarono la loro confraternita scegliendo come sede la Chiesa Maria SS. Annunziata. Negli anni più bui della sua storia il convento fu destinato a caserma militare, a Regia Pretura, ufficio di conciliazione, ufficio del registro e del demanio, ufficio distrettuale delle imposte dirette, etc. Adesso accoglie gli uffici dell’amministrazione civica cittadina. Da questo il precedente toponimo di Via degli Uffici. Collaterale alla chiesa sunnominata si trovava la Chiesa di San Bartolomeo, costruita nel 1431 dagli aderenti alla confraternita dello stesso nome sulla superficie della casa nobiliare di Giovanni Graffeo, dopo regolare acquisto. Questi nobili mazaresi fruivano di edifici anche nella piazza San Bartolomeo e di fronte o nei pressi della chiesa di San Francesco. Nel 1600, la confraternita di San Bartolomeo cedette la chiesa ai Padri Carmelitani e, con il ricavato della vendita, edificò il tempio religioso nel Piano dei Sansone, oggi Piazza San Bartolomeo. In atto questa piccola chiesa sconsacrata della Via Carmine, riconoscibile all’esterno da una porta lignea in verde sbiadito al numero civico 6, è adibita ad archivio amministrativo. Gli aderenti alla confraternita di San Bartolomeo, conservavano il privilegio di sfilare per ultimi nei cortei religiosi poiché la loro associazione era ritenuta la più antica. Pare, infatti, che l’origine risalga al periodo musulmano, tra il IX e il X secolo. L’insegna della congrega era rappresentata da una croce, una palma, un coltello e le parole “ in iis et aliis floreo”. Probabilmente altre due chiese, San Giovanni (1552 ?) e S. Maria La Piccola (1332 ?) erano allocate in questa strada. Si sconosce la data di fondazione della prima di queste due chiese, ma si sa con certezza che la Congrega della Scuola di Gesù Cristo o del Trentatré, esistente sin dal 1500, aveva scelto come sede la Chiesa di San Giovanni. Gli aderenti a tale confraternita provvedevano alla sepoltura dei poveri morti. La chiesa di San Giovanni, collocata tra il Teatro Garibaldi e il Palazzo dei Cavalieri di Malta, inoltre, era utilizzata per le cerimonie religiose dai Gesuiti del Collegio dell’attuale Piazza Plebiscito, in attesa che la loro Chiesa di Sant’Ignazio, iniziata nel 1701 fosse completata (1714) . Nella parte terminale della strada, all’angolo con la Via San Giovanni, è allocato il Palazzo dei Cavalieri di Malta o Palazzo della Commenda. Fu edificato nel 1657(?) come struttura assistenziale, di protezione dalle scorrerie barbaresche e di cura dei pellegrini così come erano i principi-guida dell’Ordine Militare dei Cavalieri di Malta. I centri di accoglienza ed assistenza usufruivano anche di sostegno religioso mediante una chiesa annessa e, nel caso in questione, si avvalevano della Chiesa di San Giovanni. Alla fine dell’Ottocento l’edificio è stato sede della sottoprefettura ed in atto accoglie uffici amministrativi comunali. In occasione di recenti lavori di ristrutturazione sono stati portati alla luce avanzi di struttura muraria riferibili ad un vasto periodo che va dal IV secolo a. C. fino all’epoca musulmana e normanna. Sono state riscontrate, inoltre, delle canalette che si dipartivano da questo edificio e raggiungevano la foce del fiume, al fine di assicurare il rifornimento d’acqua alle navi ormeggiate. Precedentemente, sin dal 1567, in Mazara esisteva la Commenda di Santa Maria delle Giummare con l’utilizzazione della Chiesa e del monastero. La presenza della statua della Madonna con Bambino nell’attuale Chiesa della Madonna dell’Alto fu possibile grazie alla commissione allo scultore Giacomo Castagnola da parte del primo commendatore della chiesa fra Giovanni Giorgio Vercelli. Nella Via Carmine, a pochi metri dal Palazzo dei cavalieri di Malta, è situato il Teatro Garibaldi, edificato nel 1848 con il nome di Teatro del Popolo. Il 24 luglio 1848, il consiglio comunale in una delle prime sedute, dopo il moto del gennaio 1848, approvò la proposta della costruzione del teatro autorizzando il prelievo della somma occorrente dal lascito post mortem del vescovo Scalabrini, riservato esclusivamente alla costruzione del porto. L’incarico tecnico fu affidato all’architetto canonico Viviani di Castelvetrano che, in soli tre mesi, portò a compimento il teatro, intitolato nel 1862 a Giuseppe Garibaldi per decisione del consiglio comunale. Il teatro si presenta con una sala a ferro di cavallo, un dimesso ingresso che mediante due scale convoglia il pubblico ad un doppio ordine di palchi e al loggione che permettevano, in origine, di ospitare circa centocinquanta persone. Attualmente l’agibilità per i posti a sedere è stata concessa per un numero di 99, dei quali 54 in platea, 45 nei palchi, il loggione non viene utilizzato.
L’interno del teatro mostra una ricca e stupefacente decorazione pittorica in contrasto con il sobrio prospetto esterno, privo di particolari abbellimenti pittorici o marmorei. Il passato è storia. Ma la storia di questa città è parola scritta su carta consunta e smarrita, la memoria segue altri percorsi, del vacuo e del nulla. Solo il ghibli e lo scirocco continuano indefessi a deporre sabbia rossa e aria umida su cose e persone.

Piazza Chinea o Piazza Canea?
Come può una piazza, di dimensioni così limitate, essere colma di storia, di vita sociale, di concretezza religiosa, di vita artigianale? Il toponimo è molto discusso, poiché lo si può far derivare dal termine arabo Xhanea con il significato di fondaco o dalla parola Khan nel senso di luogo di vendita del vino. Ma con il termine Chinea si indicava anche la razza del cavallo bianco, sopra il quale il re di Napoli faceva pervenire al Papa il tributo che, annualmente, doveva pagare in segno di vassallaggio. Ma quest’ultima ipotesi in quale maniera può collegarsi con la storia della piazza o della città? Di certo la piazza rappresentava, sin dall’epoca musulmana, il mercato più vivace della città, nella quale convergevano cinque strade dalle botteghe e botteghine traboccanti di mercanzie varie e dai bazar delle spezie. La piazza e le strade contigue costituivano un unico straordinario spettacolo di amalgama di merci e di voci. La piccola Via Paolo Ferro, dall’impianto tipicamente islamico, tre metri di larghezza e sessantasette in lunghezza, a decorso leggermente curvilineo, era denominata anche “ la vanella delle corna”, poiché in essa si assemblavano le botteghe dei macellai. La Via San Bartolomeo è un rapido percorso che conduce al Piano dei Sansone, nobile famiglia mazarese, attualmente Piazza San Bartolomeo. Questa piazza, con la breve strada San Bartolomeo, era stracolma di botteghe di frutta e verdura, di erbe e spezie, di legumi con fave, ceci, lenticchie, ed ancora noci, mandorle pistacchi, datteri, fichi, melograni, arance, etc. Il Piano dei Sansone, infatti, precedentemente, era denominato Piano della Verdura. La Via Ospedale, che conduce oltre al tempio sacro del martire mazarese San Vito, anche al vecchio nosocomio, secondo in ordine cronologico, costruito nel 1657, oggi abbandonato, (il primo fu edificato nella Via Ospedale Vecchio), era verosimilmente, strapiena di botteghe di vino. La Via del Purgatorio, che conduce alla Piazza dell’Immacolata, un tempo Piazza dei Genovesi, rigurgitava di botteghe di generi alimentari. La collocazione del fondaco è da ipotizzarsi nella Via o Piazza del Purgatorio o nella Via Ospedale. La Via Garibaldi, più significativo il precedente toponimo Via Maestranza, brulicava di botteghe di formaggi e mercanzie varie. Questa area su descritta, per la presenza di continua folla vivace e per il susseguirsi delle grida dei numerosi commercianti ha tramandato nella popolazione locale i termini di canea e caniotu. E’ probabile che, dopo l’espulsione dei Musulmani, questa fiorente attività commerciale fosse continuata ad opera della colonia dei Genovesi, residenti nella vicina Piazza dell’Immacolata, la cui chiesa, un tempo, era denominata Chiesa di San Giorgio.A pochi passi l’odore dell’incenso e il sommesso canto dei fedeli nelle chiese di San Vito in Urbe, dell’Immacolata, di San Bartolomeo, di San Nicola, di Santa Veneranda, di Santa Maria dell’Itria, della Cattedrale, frammisti all’effluvio della salsedine e al fievole roco grido degli alcioni.


Il Piano del Collegio
La Piazza Plebiscito, già Piazza Guglielmo Marconi, ma dal volgo conosciuta più come Piazza del Collegio, in epoca normanna faceva parte della “Platea urbs ante castellum”, un ampio territorio, in parte paludoso, che si estendeva, prima della costruzione delle mura ruggeriane, fino alla costa. L’edificazione della cinta muraria e delle abitazioni dei nobili e dei militi normanni delimitarono questo vasta area assumendo nei secoli successivi con la costruzione delle opere monumentali la conformazione che adesso si riscontra. Il Piano del Collegio, noto nell’Ottocento anche come Piano S. Egidio, offre a chi proviene dalla vivace rumorosità del Piano Maggiore, attraversando le poche decine di metri della via XX Settembre, la gradevole sensazione di un quartiere silenzioso, quasi dormiente, infranta dal rumore delle auto incomprensibilmente circolanti in questo boudoir monumentale. L’attenzione é subito carpita dal lato occidentale della piazza con due cupole dall’aspetto orientaleggiante che creano un angolo dal fascino particolare. Le due cupole ad uno sguardo superficiale inducono alla fallace impressione che esse siano componenti di un solo complesso religioso. In realtà appartengono a due sacri templi, disgiunti l’uno dall’altro e costruiti in epoche storiche diverse. La prima cupola, che si incontra pervenendo dal Piano Maggiore, appartiene all’ex chiesa di Sant’Egidio, costruita probabilmente nel 1424, durante la signoria dei Cabrera, Conti di Modica. La porta d’ingresso in marmo, opera del Berrettaro e del Mancino, adesso all’interno della Cattedrale a metà circa della navata destra, presenta, infatti, scolpita oltre la vita del santo anche l’anno in cui venne eseguita: “Regia progenies templum cuips silet Egidi ? Frates constituere sui - 1424"
Tale chiesa sconsacrata é stata utilizzata come caserma, come collegio elettorale e in tempi più recenti come sede di riunioni del Consiglio Comunale, di conferenze e di mostre. In questo tempio profanato, il 21 e 22 ottobre 1860 si svolse il plebiscito (da qui il nome alla piazza) mediante il quale i cittadini mazaresi poterono sottoscrivere la volontà all’unità italiana dopo averla tanto gridata per le strade della città. Oggi é la sede destinata all’accoglimento del Satiro danzante.
Il Safina, autore della “Mazara Sacra”, già nel 1900 aveva espresso il desiderio che la chiesa di Sant’Egidio divenisse deposito per la conservazione di tutte le opere d’arte, le lapidi, i monumenti, sparsi per la città.


Cupola chiesa S. Egidio
L‘altra cupola collocata quasi di fronte all’ingresso del Collegio dei Gesuiti, l’attuale Centro Polivalente di Cultura, appartiene alla chiesa di Maria SS. Annunziata, il cui ingresso è sito nella via Carmine. Tale tempio religioso, adesso sconsacrato, è piu’ comunemente conosciuto come chiesa del Carmine, attiguo al Convento dei Carmelitani che é stato costruito verosimilmente nel 1367 e che adesso é utilizzato come sede del Palazzo Municipale. La chiesa fu edificata nel 1580, sotto il regno di Filippo II, su iniziativa dei Padri Carmelitani Pompeo e Bartolomeo Ragusa, entrambi mazaresi, due eccelsi rappresentanti della scuola dell’ordine dei Carmelitani, famosa in tutta la Sicilia sud-occidentale. Il pavimento in ardesia, la ricchezza in marmi e le sue non piccole dimensioni facevano considerare tale tempio, fino alla metà dell’Ottocento, uno dei piu’ importanti della città. Seguono sul lato meridionale della piazza alcune dimore private a delimitare una strada di pochi metri, la via Plebiscito, che conduce all’attuale via Carmine e al lungomare. E’ probabile, però, che, all’epoca dell’elevazione delle opere monumentali, queste dimore private non esistessero ancora e, pertanto, che il Piano del Collegio si estendesse fino ad inglobare il Convento dei Carmelitani, la Chiesa di San Bartolomeo che ebbe funzioni di chiesa del convento fino alla costruzione della chiesa del Carmine, il palazzo dei Cavalieri Malta, la Chiesa di San Giovanni. La religiosità dei Mazaresi, notevole in quel periodo storico, si manifestava con la costruzione, in questa area territoriale, anche della chiesa di Santa Margherita che “confina con li casi di Cola Adamo et all’incontro con li casi di Giuseppe Bianco”, della chiesa di Sant’Andrea, sita nella via San Giovanni nei pressi della Porta del Fiume e della chiesa delle Grazie o dei santi Crispino e Crispiniano, allocata sempre nella suddetta via.
Sul lato orientale del Piano trovasi il Collegio dei Gesuiti, la cui edificazione fu iniziata nel 1675, mediante l’utilizzazione dell’eredità del nobile mazarese Gaspare Riera, su una vasta area di casupole demolite per l’occasione, e terminata circa vent’anni dopo.


Porta marmorea del Berrettaro ex S. Egidio
La peculiare attività dei Gesuiti, l’istruzione gratuita, fu iniziata, però, immediatamente in una casa privata del quartiere San Giovanni e in seguito, nel 1681, in quella parte del Collegio portato a compimento. Tramite l’apporto di illustri insegnanti la scuola divenne famosa in tutta la Sicilia Occidentale e, nel 1759, il vescovo Girolamo Palermo riuscì ad ottenere dalle autorità preposte che il Collegio potesse conferire la laurea in filosofia e teologia. Dopo l’espulsione dei Gesuiti nel 1767, l’edificio fu ceduto temporaneamente, nel 1780, ai Minimi di San Francesco di Paola. Nel 1866 passò alla disposizione del Comune che utilizzò i vari locali come uffici pubblici, Ufficio del Regio Demanio e del Registro, della pretura, dell’archivio notarile, della conciliazione, della biblioteca e, nel 1868, divenne pure sede della Regia Scuola Tecnica. Già dal 1863 il piano superiore ospitava il Regio Ginnasio. Nei primi anni del Novecento i locali del piano terra furono adibiti a scuole elementari e intorno al 1950 a scuole medie. Infine, nel 1977, il piano inferiore venne destinato a sede della Biblioteca, del Museo e della Pinacoteca. Sempre sul lato orientale, adiacente al Collegio dei Gesuiti, è sita la chiesa di Sant’Ignazio, costruita nel 1701 sui resti del palazzo dei nobili mazaresi Adamo. Tale sacro tempio costituiva la chiesa dei Gesuiti i quali, nell’attesa del definitivo completamento, avvenuto nel 1714, esplicavano le loro funzioni religiose nella chiesa di San Giovanni, ubicata nella via Carmine tra il teatro Garibaldi e il palazzo dei Cavalieri di Malta. Nel 1708, durante i lavori di demolizione del palazzo della famiglia Adamo, fu rinvenuta una lapide recante la seguente iscrizione:
M. MARCELLO CLARIC. BIO… SEM...
Il D’Orville, in visita a Mazara, osservò la lapide e sostenne che essa fu dedicata dai Mazarienses al vincitore della seconda guerra punica nella quale gli abitanti parteciparono come alleati dei Romani.
La chiesa si presentava a forma ellittica con otto coppie di colonne tuscaniche, distanziate dalle pareti appena un metro e mezzo, e con sette altari, tre per lato e il maggiore al centro. Vicino a questo altare esisteva un passaggio che conduceva dalla chiesa all’atrio del Collegio. Afferma il Safina che a memoria degli uomini era considerata meritatamente come chiesa modello in fatto di culto religioso. In seguito al decreto di espulsione dei Gesuiti, il vescovo Ugo Papé, nel 1780, donò la chiesa ai P.P. Minimi di San Francesco di Paola. Nel 1885 il fondo per il culto affidò la chiesa al Comune e il sindaco dell’epoca, Girolamo D’Andrea, assunse l’obbligo della continuazione delle funzioni religiose. Nel 1901, il vescovo Gaetano Quattrocchi, per la temporanea chiusura della Ecclesia Maior normanna per lavori di restauro, chiese al Comune e ottenne che la chiesa del Collegio fungesse da Cattedrale. E in questa chiesa, nel dicembre del 1902, il vescovo Quattrocchi, durante lo svolgimento della funzione religiosa, fu colpito da apoplessia cerebrale che lo costrinse alle dimissioni nel mese successivo; e, sempre in questo tempio, fu accolto da popolo e clero festanti il nuovo vescovo Nicolò Maria Audino. Negli anni seguenti la chiesa fu chiusa al culto e trasformata in sala di riunioni consiliari, in cinematografo, in asilo di profughi, in sala di comizi elettorali finché nel dicembre del 1933 crollò dopo anni di vane richieste di restauro da più parti. Oggi si conserva solo la struttura esterna.


S. Ignazio ex chiesa del Collegio dei Gesuiti
Sul lato settentrionale della Piazza del Collegio, dopo la via XX Settembre, interamente occupata in quell’epoca dalle dimore di nobili e borghesi, insistono dimore private che vanno a confinare in un piccolo vicolo che immette dal quartiere normanno in stile sontuoso all’impianto urbanistico tortuoso, tipicamente islamico, della città musulmana. Infine nella parte iniziale del lato occidentale, subito prima della chiesa di Sant’Egidio, una stradetta che conduce al sacro tempio di San Vito in urbe, costruito sul suolo che accolse i primi vagiti e i passi del santo giovinetto, generoso e prodigioso protettore della città del Mazaro. Sul frontespizio del sacro edificio, a conferma del luogo natìo, risalta l’iscrizione:
“Quod cernis templum D. Vito sacrum, inclita domus eius fuit, in qua Generis amplitudo illustria dedit incunabula,…” “Osserva questo tempio sacro a Vito, fu la sua casa, nella quale ebbe natali illustri...”
Questo Piano, seppure avvolto da perenne silenzio tranquillizzante, è stato scenario di avvenimenti dai toni contrastanti, da cortei religiosi a violenti tumulti, da manifestazioni politiche a cortei elettorali. Questo Piano accolse, nel 1626, il corteo cittadino, recantesi nel Piano Maggiore, con le spoglie mortali del vescovo La Cava, morto in odore di santità, dopo avere alleviato durante tutto il suo episcopato la miseria, le afflizioni e le sofferenze del suo gregge trascurato e abbandonato dalle autorità spagnole. E il popolo, ancora per vari decenni dopo il decesso, si rivolse alla tomba del santo pastore per procurarsi la remissione delle malattie dopo avere appoggiato il capo sul sepolcro.
Questo Piano accolse l’esultante Salvatore Di Giorgi, finalmente libero di esprimere la sua opinione politica fuori dalla farmacia-covo antiborbonico, sita nella via Garibaldi, e gli altri amici liberali Natale Castelli, Giovanni Saffiotti, Mario Certa, Salvatore Giliberti, Vincenzo Napoli, Giovan Battista Lombardo, i Dado, i Domingo etc. mentre si recavano presso la sede del plebiscito, nella chiesa di Sant’Egidio, per manifestare il loro “Si” alla domanda “Il popolo siciliano vuole l’Italia una ed indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti ?”
Questo Piano, quotidianamente vide, dal 1681, gli insegnanti del Collegio dei Gesuiti, padre Agostino Fiorito, espertissimo in lettere greche e latine, Ottavio Caietani, autore della “Vitae Sanctorum Siculorum”, padre Giuseppe Napoli, filosofo e teologo, rendere famoso in tutta la Sicilia occidentale tale centro di cultura abilitato alla concessione della laurea in filosofia e teologia.
Questo Piano, muto e afflitto testimone, vide, nel gennaio del 1894, le fiamme innalzarsi dagli uffici, dalla biblioteca, dalla scuola del Collegio e dallo spiazzo antistante l’ingresso del glorioso edificio, provocate, durante la sommossa del fascio dei lavoratori mazarese, da una folla in tumulto, insensibile e sorda ad ogni invito alla calma. E l’incendio si propagò alla chiesa del Collegio e ai monumenti fino allora tutelati e venerati.
Questo Piano vide il giovinetto Vito, impavido ed incurante dei militi romani, deciso a non rinnegare la fede cristiana, allontanarsi dalla casa natia con Modesto e Crescenza e portarsi sulla riva orientale mazarese per iniziare quel viaggio conclusosi a Roma con il martirio.
Questo Piano assisteva, ogni mercoledì dal 1612, alla processione dei Carmelitani che in “sacco e visiere di tila bianca con cordone e mantello di colore bigio…” attraversavano, in preghiera, la piazza del Collegio, la via Santa Teresa, la via San Vito, la via San Giovanni, la via Carmine e rientravano nella loro chiesa di Maria SS. Annunziata. Assisteva pure, questo Piano, nella ricorrenza del 25 aprile, alla processione con l’immagine di San Marco trasportata dalla Cattedrale alla chiesa di Santa Teresa e, nel caso di siccità, alla processione di tutti i santi, invocati per procurare l’arrivo della pioggia.
L‘abbandono del culto religioso in alcune chiese e la distruzione delle altre per l’inclemenza degli anni hanno trasformato tale salottino monumentale, ricco di cristianità e di fervore religioso, in un melanconico luogo di memorie storiche, che, con l’arrivo del Satiro danzante, riacquisterà parte del suo antico splendore dimenticato. (Fonte: L'arco)
Sopra un cavallo Bianco
Storia minima tra Mazara e Torretta
Ricinu chi passa di notti, supra un cavaddru biancu ricinu chi passa di màrtiri, supra stu celu di Mazara ricinu chi lu mantu russu cummogghia lastimi e chianti. Lu sentu lu strallaciu? La senti la cialoma? Vitu passa di notti, na li strati di sta terra, pi li strati di Mazara.
Un tempo, non molto lontano, queste parole non erano sconosciute. Un tempo, non molto lontano, gli abitanti di questa landa, bagnata dal fiume indemoniato, conservavano nel cuore e nella mente il segreto tramandato e affidato dalla voce dei padri. Tra i tanti figli, un erede di questa terra e della dura vita di mare, pescatore come tanti, da un paio di decenni uomo di mare, all’alba di ogni nuovo giorno, assorbiva le parole del Vangelo ed accoglieva la benedizione nella chiesetta di San Nicolò Regale, prima di affrontare il fato e le tempeste in agguato con la barchetta dalla bianca vela. Alla fine di una giornata di fatica e di passione, l’uomo dall’odore di salsedine, fu respinto, non unica volta, dalle onde vorticose nel suo tentativo di entrare nel porto della salvezza e la caletta di Torretta, con le sue dune di alga, gli concesse la tranquillità che la foce del Mazaro aveva negato. Era già buio, le tenebre avevano avvolto i rustici magazzini di salato del borgo marinaro, erosi dalla salinità fluente dal mare a due passi, quando decise di tornare a rivedere e rasserenare la moglie in ansia per il suo mancato ritorno e scacciare il pensiero del solito funesto naufragio. Aggredì con piede veloce il percorso tortuoso e ciottoloso con l’aiuto dei riverberi della luna che rendevano argentee le superfici delle rotondità di timo dall’odore di origano selvatico. Con gli occhi per terra e la mente rivolta agli affetti aveva già superato il ponticello sul fiume Delia e la chiesetta di San Vito a Mare, la cui visione, ogni volta, gli elargiva conforto, serenità, speranza e forse anche rassegnazione a quella vita di sudori e di stenti, trasformati appena in tozzi di pane. Si avvicinava al viale alberato del lungomare e prima di affrontare i gradini della scalinata che conducono alla Piazza del Collegio, come un automa, volse lo sguardo a quell’angolo di fronte, tra il lungomare e il molo interno, nel quale avevano trovato ormeggio le imbarcazioni, scampate per buona ventura al fortunale. Ecco, nell’antico e profondo silenzio, il Collegio dei Gesuiti dall’imponente porta lignea, le chiese di Sant’Ignazio e Sant’Egidio, mentre i piedi ancora celeri affrontavano la docile salita della piazzetta Santa Teresa.Un rumore insolito attrasse la sua attenzione, somigliante ad uno scalpiccio sordo, lontano, di cavallo, che diveniva più chiaro, più vicino, sempre più prossimo, così come cresceva la sua inquietudine oscura, immotivata. Non era paura, ripeteva a sé stesso, ma la trepidazione ingigantiva. La ventennale attività in mare con gli inevitabili naufragi, accettati e sopportati come componenti della natura, aveva reciso il ramo impulsivo e focoso dell’albero della verde età. Aveva ormai messo in conto che la “draunara”avrebbe potuto, un giorno o l’altro, scagliarlo verso il cielo tetro, prima, e adagiarlo sul fondo gelido del mare, dopo. Che San Vito non voglia mai! Ma non si disperava, l’aveva accettato ormai. Sapeva che ogni giorno di vita era un giorno strappato al trapasso. Senza inquietudine, senza angoscia. Allora, perché quell’apprensione crescente, nuova, quell’inconsueto rumore di zoccoli davanti al tempio del santo martire mazarese? Improvvisamente i suoi pensieri si paralizzarono alla visione di un cavallo bianco montato da un giovinetto splendente, irraggiante luce sulle abitazioni e sulla strada, proveniente dalla stretta via attorno alla chiesa, con un’ andatura tranquilla, serafica. L’uomo di mare allibì per qualche secondo che gli sembrò un’eternità. Scomparsa la visione, riacquistò la funzione mentale e l’energia fisica per riprendere con maggiore vigore il cammino verso la dimora nell’umile quartiere dei pescatori, a due passi dal fiume, la Via Isola delle Femmine. Prima di varcare la soglia, gli sovvenne l’antico canto dei padri :”Ricinu chi passa di notti, supra un cavaddru biancu…”. La compagna della vita travagliata, dalla saggezza casalinga, edificata sui pilastri del buonsenso e dell’esperienza nella collettività sociale, gli suggerì di non profferire parola alcuna dell’accaduto. Ma come succede nei miseri quartieri, nei quali le notizie segrete sono dei refoli di vento penetranti in ogni spiraglio, così la conoscenza dell’avvenimento si propagò nella totalità del mondo marinaresco. Tuttavia questo evento non costituiva una novità in assoluto. Alla fine dell’Ottocento, infatti, la signora Maria Quinci, abitante nella Via S. Vito, nel punto di immissione nella Piazzetta Santa Teresa, svegliata, durante una notte, da un rumore anomalo, si affacciò sulla strada rimanendo pietrificata all’apparizione del giovinetto, sopra un cavallo bianco, emanante un bagliore immenso al suo passaggio. Storia, leggenda o storia leggendaria? Quello che ispira il cuore o capta l’intelletto. Una scelta o l’altra non nuoce ad alcuno! Ma la conoscenza arricchisce. O la sapienza o la devozione

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Un giorno come gli altri
“Supra di tutti c’è Diu chi sta ncelu,
dopu veni lu re, signuri di la terra.
E dopu li surdati di lu re,
e po’ li cavaddi di li surdati di lu re.
Doppu vennu li viddani, l’aivuli e li fogghi…”.

E i pescatori?
I pescatori, un tempo, non dilapidavano le parole, non partecipavano i loro pensieri, ma con i soli tozzi di pane, senza lamenti e senza pianti, come foglie al vento, vivevano la vita. Ogni mattina, ancor prima che l’aurora mostrasse i suoi colori, dopo avere dedicato una prece al Signore degli umili e dei potenti, durante la messa mattutina, alzavano la vela e lentamente, con il cuore scuro, iniziavano un’altra giornata di passione. Erano giunti a qualche miglio dalla riva di Capo Fedo, i pescatori della paranza a vela, Divina Provvidenza. Un giorno come gli altri, quel giorno. Il cielo, anche se incerto e piagnucoloso, non sembrava ostile e i cinque uomini di mare, taciturni e tristi da sempre per esperienze strazianti, erosi dal sole e dalla salsedine, da alcune ore lavoravano rimuovendo dalla rete pesci lucenti. Un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette. Silenzioso per indole, anche il giovane Francesco, di appena diciassette anni, ma già da cinque aveva assaporato le sofferenze di tale mestiere, ripeteva i gesti lavorativi del padre Giovan Battista Trinca, di cinquantaquattro anni, dello zio Giuseppe Trinca, di sessantaquattro anni, dell’amico Pietro Di Maria, di trentasette anni e del di lui figlio, Salvatore, ragazzo di dodici anni, che, da due stava patendo le tribolazioni della vita di mare. Un giorno come gli altri, quel giorno. Improvvisamente, in quell’immenso silenzio di mare e di cielo, un lieve rumore. Videro davanti a loro, non molto lontano, vento e acqua alzarsi a vortice, come una montagna, dal mare verso il cielo. Atterriti, rivolsero immantinente il pensiero al protettore San Vito, ma le parole non fecero in tempo ad uscire dalla bocca chè, in un lampo,furono scaraventati, dopo un volo di alcuni metri, nelle fredde acque del mare di marzo. Avvertivano l’acqua salata scendere nella gola, gli occhi spalancati bruciare, il sangue pulsare, le orecchie fischiare, mentre i corpi precipitavano verso il fondo. Strinsero i denti, spinsero con disperazione, con le mani e con i piedi, l’acqua verso il fondo e, mentre i corpi fluivano verso l’alto, intravedevano sopra la luce sempre più vicina. Come il sughero dal fondo del mare, sale impetuoso all’aria e dopo ricade rimanendo a galla, così i pescatori, mentre mostravano i primi segni di asfissia, emersero dall’acqua all’aria bramata e benedetta con la testa, con le spalle e con il tronco. Il padre, Giovan Battista, ancor prima di respirare, emise un grido angoscioso e lungo, Francescoooo, alla ricerca dell’amato figlio, fino a quando non lo vide e non lo sentì tossire con gli occhi rossi e con la bocca aperta. Per un attimo il suo grido si incrociò con quello disperato di Pietro di Maria, Turiii. Si guardò intorno. Erano tutti a galla, Francesco, Giuseppe, Pietro, Salvatore, la barca capovolta, la vela a brandelli, tavole e pezzi di legno sopra il mare quietato. La tromba d’aria aveva bussato ancora per pretendere il suo consueto tributo. Con sforzi sovrumani, i pescatori rovesciarono la barca, la svuotarono dell’acqua come meglio potevano, anche a mani unite, e tentarono di guadagnare la spiaggia a forza di remi. Ma la paranza, non completamente vuota, andava a rilento e le forze dei pescatori erano prossime all’esaurimento. Arrivati a mille metri circa dalla riva, decisero di abbandonare il loro mezzo di lavoro e di sopravvivenza e di proseguire a nuoto. Ma le acque gelide toglievano il fiato e l’energia e, ad un certo momento, le forze vennero meno. Le braccia erano piombo, il petto ghiaccio, il cuore batteva come un orologio, la bocca aperta ed il fiato grosso. Erano ormai immobili i pescatori, come una calamita il fondo del mare li attirava. Si stavano arrendendo al fato, sterminatore degli umili, quando sentirono voci di speranza: “resistete, resistete, stiamo per arrivare”. I finanzieri della casermetta, vicino al mare, già li aiutavano a calpestare la sabbia. Entrarono nel piccolo edificio, umido e scalcinato. L’ anziano Trinca, assiderato e stremato, fu aiutato e portato sopra un materasso. Tremavano tutti e si coprivano con coperte di fortuna. Si accostò, Giovan Battista, al fratello maggiore con una coperta per allentare il freddo e il tremore. Ma non tremava più, Giuseppe, non parlava più, aveva lasciato per sempre stenti e sofferenze, aveva trovato, alla fine, la pace tra le braccia capienti del Signore, dopo una vita di lavoro e di muti lamenti. Non piangeva l’uomo di mare davanti alla dipartita del fratello, osservava il vuoto, scrutava il mare pacato, guardava ma non vedeva e non fiatava. Da sempre sapeva che questo lavoro è fame, sudore e lacrime di sangue. Da sempre. Pensava che questo spietato e immutabile destino dei pescatori, ogni giorno in agguato, era, alla fine, arrivato per suo fratello, ma non aveva vinto. Non era stato capace, no, il fato maligno, di tenersi il corpo nel fondo del mare. Qua era, qua, il corpo di suo fratello per potere accogliere il pianto e le grida di dolore della moglie e del figlio. Il figlio Ignazio, trentenne, cieco e paralitico, che poteva solo sentire la voce e la carezza, ma non vedere la mano del padre. Ora nemmeno questo. Che aveva avuto di così tanto nella sua esistenza per patire quest’altra penitenza ? E la moglie Quinci Antonina, di sessantatrè anni, come doveva sopravvivere, adesso, negli ultimi suoi anni ? Non parlava il figlio Francesco, sfinito, accovacciato in un angolo della stanza, non parlava Pietro Di Maria, rannicchiato, tremante sul pavimento, non parlava Salvatore, in preda ai brividi di freddo, rannicchiato accanto al padre. Non parlavano i finanzieri, angosciati da tanta tragedia, non soffiava più il vento, non era più inquieto il mare. Non fu un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette.

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LA PIAZZA DALL'ODORE D'INCENSO PERDUTO
Nel centro della città antica, tra i templi religiosi di San Nicola, Santa Teresa, meglio nota come chiesa di S. Vito in Urbe, e San Bartolomeo, dorme nel silenzio, figlio del trapasso della Canea, una piazzetta, larga quindici metri e lunga quaranta, tra il volo delle rondini, il lamento del vento e le reminiscenze di remoti canti di credenti, tendenti ad occultare un passato musulmano e a ridestare un trascorso di fede cristiana. Piazza dell’Immacolata. Due piccole chiese la caratterizzano: la Chiesa S. Calcedonio, la più vicina alla piazza Chinea, e la Chiesa dell’Immacolata. La prima era appellata dal popolo anche Chiesa del Purgatorio, così come la piazza. In origine accoglieva la statua di Santa Lucia, per la cui presenza anche il sacro tempio veniva appellato Chiesa di Santa Lucia. Il secondo edificio sacro fu costruito dalla colonia dei Genovesi, residenti in questo piazzale, un tempo conosciuto come Piazza dei Genovesi. Questa chiesa, infatti, era dedicata a S. Giorgio. Andata in rovina, fu ricostruita dai Congregati di Maria SS. Immacolata nel 1589. Da qui il nome alla chiesa e alla piazza. Accanto a questo sacro tempio fu realizzata un’infermeria, amministrata dai Padri Osservanti del Poverello d’Assisi. Nel periodo medievale, una associazione di volontari, la “Congrega delle Cinque Piaghe o Congrega dell’Immacolata o dello Spedale” si dedicava al trasporto degli ammalati dai loro umili tuguri in ospedale e provvedeva, parimenti, alla ricerca e alla distribuzione di medicine ed alimenti. La sede della congrega, inizialmente, era ubicata presso la chiesa di Sant’Andrea, eretta vicino alla Porta del Fiume ad opera della colonia degli Amalfitani, e nel 1589, fu trasferita presso la chiesa di San Giorgio dei Genovesi. Questo edificio sacro era denominato, oltre che Chiesa di San Giorgio e Chiesa dell’Immacolata, anche Chiesa dell’Ospedale e Chiesa di Santa Lucia, poiché in essa fu trasferita la statua dell’omonima Santa, collocata in origine nel limitrofo tempio religioso di S. Calcedonio. L’esistenza dell’infermeria motiva la costruzione in questo rione del secondo ospedale cittadino, iniziato nel 1596, per volontà del vescovo Luciano de Rubeis, e completato nel 1657, nell’attuale Via Ospedale, tra la chiesa di S. Vito in Urbe e la Piazza Chinea, confinante posteriormente con la Piazza Immacolata. Fu abbandonato in seguito al terremoto del 1968. Si ricorda che il primo ospedale era situato nel quartiere della Xitta, e precisamente, in Via Ospedale Vecchio. Un tempo, quando la fede nei prodigi era radicata nell’animo dei cittadini, popolo e clero, l’8 dicembre di ogni anno, assiepavano la chiesa dell’Immacolata, in seguito alla cessazione delle febbri mortali imperversanti nella città, nel 1591. Oggi è piazza di quiete, di silenzio, di religiosità languente, di rimpianti.

Di pasta antica
Storia minima di vita agreste
Seduto su una sedia di paglia, volgeva lo sguardo sul mare mutevole, antico e pur sempre nuovo, dopo una vita tra i poderi e le inclemenze del cielo. Rimembrava gli anni di uomo della terra, i diversi decenni consumati in quel lavoro che non distingueva le stagioni del freddo e del caldo, quando non festeggiava le domeniche del Signore e la preghiera al Dio degli umili, pensata ma non bisbigliata, aleggiava sui campi del sudore. La sua religione era stato il risparmio. Frugalità nell’assunzione degli alimenti, riutilizzo del cibo casualmente ecceduto, recupero dei vestiti voltati e rivoltati fino a quando, perfino, il sarto doveva arrendersi davanti al palese deterioramento. Tuttavia, la religione del risparmio non infieriva sui libri. Quei suoi virgulti, doni del Cielo, che avevano voluto sottrarsi a quella sua vita senza luce, avevano ricevuto tutti i libri necessari. Ma guai ad ingiuriare lo studio e a svilire le sue sofferenze. Quanti decenni di estenuante lavoro in campagna nei mesi freddi sotto la pioggia lenta e penetrante, e nei mesi asfissianti dell’estate per risparmiare persino sulle privazioni! Quanti tozzi di pane raffermo con aglio arrostito sull’altare della religione del risparmio! Eppure ad obliare quelle astinenze, ecco l’odore particolare di terra, inumidita dalla rugiada del mattino, che lo stimolava ad inspirare quell’effluvio di purezza celestiale, quell’incantevole poesia nella amara prosa dell’esistenza. Sensazione inebriante che si ripeteva ogni mattina come la fragranza del pane caldo, appena uscito dal forno a pietra. Quell’erba corta, colma di rugiada, infondeva la sua umidità alla parte terminale delle brache, senza che lui percepisse alcunché.
Adesso, incanutito e curvo, meditava sulla variabilità dei comportamenti umani in questi decenni del cinquanta e sessanta dopo il Novecento. Non voleva e non poteva conformarsi all’evoluzione dei tempi. Ma che evoluzione, che progresso! La nuova epoca era la morte, la scomparsa delle buone maniere di vita, dei detti e proverbi, contenitori di verità, dei modi di dire, delle consuetudini. Rimembrava gli atteggiamenti del tempo dell’età giovanile, quando il rispetto dovuto alle persone adulte, ed ancor più a quelle anziane, sia nel mondo contadinesco che in quello della marina, in questa landa sperduta della Sicilia sud-occidentale, lo si manifestava con il “vossia”, abbreviazione di vostra signoria, costumanza utilizzata in origine per i nobili, i signorotti, i proprietari, etc. e, in seguito, estesa ai canuti anziani. Oh sì, è vero, lui era fissato con questo titolo, sinonimo di stima, di riverenza, di ossequio. Sì, sarà puro formalismo, ma non si dice che la forma è l’anticamera della sostanza? Non sopportava che i suoi figli conversassero con lui usufruendo del tu. Si erano annullati secoli di buone maniere. Non c’era modo di farglielo intendere a quei suoi tralci benedetti che, con il sorriso sulle labbra, gli rimproveravano affettuosamente l’attaccamento a quelle costumanze superate, frutti della trascorsa stagione del secolo precedente. Come se il riguardo e il rispetto potessero perire con il sopraggiungere di nuove epoche, come se non fossero valori immutabili, virtù senza fine e senza tempo. No, no, lui Antonino, pervenuto alla sua età veneranda, non poteva adattarsi al declino e all’imbarbarimento dei tempi. Un giovane sbarbatello, con le narici ancora piene di moccio, per la semplice motivazione, senza alcun merito, di essere suo figlio, si arrogava il diritto di dargli del tu, dimenticando il vossia e cancellando una tradizione secolare. Perché mai? No, lui non lo sopportava! Le sue osservazioni e i rimbrotti non riuscivano a rimuovere, ne a modificare l’atteggiamento dei rampolli. Persino il fidanzato della sua figliola - buono quello! - gli si rivolgeva utilizzando un termine, segno e conferma della degenerazione e decadenza dei tempi, lei.
Lei…?!.. come se avesse cambiato sesso nella sua non più rispettata vecchiaia. Non lo digeriva quell’anonimo, glaciale, irriguardoso, spudorato ed impertinente lei ed aveva deciso, un bel giorno, di affrontare questo argomento con quel suo genero. “ Nunca” (dunque), aveva iniziato, “ con questo ”lei” la dobbiamo smettere. O mi dai del vossia o mi dai del tu!”. Quello sfacciato ed insolente zito ( fidanzato) della sua piccola ebbe l’ardire e la sconsideratezza di rispondere :”D’accordo diamoci del tu!”. Muto per qualche istante e livido per quella risposta inattesa e irriguardosa, gli chiese: “Ma tu che mestiere fai?”. “Meccanico” replicò quell’intruso ed intrigante. “Meccanico? Me lo immaginavo! Insensibile, senza comprendonio come il ferro. “Tutta furrania assinnata” (Miscuglio di biade sciupato) Tempo perso! Si erano corrotte anche le buone usanze del passato; i pescatori, i meccanici, e i giovani dediti ad altre rozze attività osavano mischiare l’odore della salsedine e degli oli combusti con il profumo della terra del mattino, una fusione che rendeva arida ed improduttiva la terra dei suoi avi. Si alzò e andò a reperire la quiete nel giardino tra i refoli del vento di scirocco. Tempo perso effondere la ragione all’asino quando questo vuole entrare con il deretano e non con il cerebello (la testa).Che tristezza! Quei suoi figlioli avrebbero ereditato le terre e i suoi pochi soldi, ma non il patrimonio delle tradizioni.
Di recente, tuttavia, due episodi, avvenuti al porto nuovo della città, dei quali era stato occasionale testimone, avevano acuito in primis ed alleviato in seguito questo suo cruccio e dissidio interno. Accompagnato il figlio per una controversia di lavoro, lo osservava, dunque, discutere animatamente, anche a gesti, con un anziano proprietario. Pur essendo discretamente appartato, la voce del figlio gli perveniva nitida all’orecchio. Comprendeva che il figliolo non riusciva a convincere l’anziana persona . Ecco assumere, ad un certo momento, un tono più suadente: “ Mi ascolti, abbia fiducia. Vossia può stare certo che il lavoro sarà completato entro pochi giorni”. Cosa ? cosa percepivano le sue orecchie? Quel figlio ingrato usava il “ vossia” con un cristiano qualsiasi. All’amara osservazione paterna, avanzata alla fine della discussione, il figlio tentava di rabbonirlo:” Ma tu, cristiano sei…? Tu sei il mio genitore, sorgente senza fine di affetto, tu sei l’artefice della vita mia e dei miei fratelli. Il “vossia”, a cui tanto tu tieni è un richiamo antiquato e ci tiene distanti come estranei. E noi estranei non siamo. Noi siamo rami attaccati al tuo tronco che ancora ci nutre”. Ma Antonino, pur toccato da quella palese dichiarazione d’affetto, senza tardare, replicò : “Ma cosa credi che ai tempi del vossia l’amore fra i genitori e i figli fosse scomparso o inferiore rispetto all’attuale? Tu fai violenza al passato e alle usanze del passato. L’amore rimane anche con l’utilizzazione del vossia”. Rassicurato il figlio con una pacca sulla spalla, lo informò che andava a prendere un caffè al bar lì vicino, dove certamente avrebbe trovato un passaggio per casa. Sorseggiato il caffè, dal solito sapore di bruciato, si guardò attorno alla ricerca vana di persone amiche. Lo sguardo andò a posarsi su un giovane che aveva appena bevuto il caffè e si accingeva ad uscire. Mostrava un volto rassicurante. Lo accostò e gli chiese se per caso stesse per recarsi dall’altra parte del ponte sul Mazaro. La risposta fu di quelle che gli piacevano. “Veramente no, ma se ha necessità, ben volentieri l’accompagno”. Arrivato sul ponte, con delicatezza, non volendo abusare della sua generosità e pazienza, Antonino lo informò che poteva farlo scendere lì. Ma il giovane subito riprese: “ Vossia sarà lasciato davanti alla sua dimora”. Aveva pronunciato “Vossia…!!!” Quel gesto e quella parola gli illuminarono il viso, poggiò una mano sul ginocchio più vicino del guidatore, diede due colpi con tenerezza, a mò di carezza. L’animo si era rasserenato, qualche dubbio era stato dissolto, con soddisfazione e contentezza constatava che il cordone ombelicale con le buone maniere del passato non era ancora del tutto reciso.
”Oggi hai schiarito il mio cielo scuro, figliolo. Con piacere ti dico che sei un giovane di pasta antica. Siine orgoglioso.”

Al centro del triangolo dei tre Monasteri, largo avv. Alberto Rizzo Marino
Un tempo, quando la Via Dell’Arco si collegava direttamente alla Chiesa di Santa Agnese, e la Via M. Audino e parte della Via Santa Caterina, erano inesistenti, in quanto estensioni facenti parte dei giardini dei monasteri, l’effluvio della quiete si diffondeva in questo rione, noto come la contrada del silenzio, nelle cui vicinanze l’impianto urbanistico islamico, la sinagoga ebraica e le chiese cristiane costituivano un corollario di fede plurietnica.
A pochi lenti passi, infatti, nella Via Ospedale Vecchio, dall’attuale odore di abbandono e dalla nostalgia del fulgore passato, ostile all’accesso del sole, erano collocati, nel periodo medievale, il primo nosocomio della città, costruito per volere del vescovo Giovanni La Rosa, la Chiesa di Sant’Egidio il Vecchio ( da distinguere dalla Chiesa Sant’Egidio il giovane, sede attuale del museo del Satiro), esistita fino al 1574, che fungeva anche da dimora del vescovo e da Seminario. L’Episcopio ed il Seminario, prima della definitiva sistemazione nella piazza della Repubblica, nel 1584, ad opera del vescovo Bernard Gasch, furono trasferiti nella Chiesa di Sant’Agnese che volge il suo prospetto, alla piazza in argomento. Alle spalle di questo Largo, a pochi metri, sempre in epoca medievale, era collocata la Sinagoga ebraica, della quale, adesso, rimane soltanto un piccolo avanzo. Il suddetto tempio di culto ebraico rimase in funzione fino al 1493, quando fu applicato l’editto di espulsione per gran parte degli Ebrei mazaresi. La sinagoga fu venduta prima dell’esodo.
Ma che città è mai la nostra se la storia raccontata, il più delle volte, non trova riscontro nelle opere monumentali, abbattute in fretta senza giusta motivazione, senza rispetto delle antichità ? Se si andasse, oggi a vedere lo squallore della Via Ospedale Vecchio, denominata un tempo dal volgo come “la strata di li fimmini tinti”, si riuscirebbe mai ad ipotizzare lo splendore e la potenza dei vescovi normanni in questa loro dimora, seppure in un contesto di strade strette, a decorso tortuoso, tipico dell’impianto urbanistico islamico del tempo? Le parole di Lucano “Etiam periere ruinae” dovrebbero far parte dell’insegna della città del Mazaro?
Gli Ebrei, nella sinagoga, posta a pochi metri, potevano sentire i canti liturgici dei Cristiani nella Chiesa San Michele, fondata dai Normanni, senza alcun astio o animosità religiosa.
Posto al centro di un ipotetico triangolo, costituito dai tre monasteri di San Michele, Santa Veneranda, Santa Caterina, il Largo si delineò e si costituì grazie allo sventramento dei monasteri, nel 1931, e alla demolizione successiva degli edifici privati, appartenenti agli eredi Bianco, che consentirono l’edificazione dell’ufficio postale centrale. Il monastero di San Michele riuniva le vocazioni della nobiltà mazarese, palermitana e delle città viciniori. Nel monastero di Santa Caterina convenivano le novizie facoltose, mentre in quello di Santa Veneranda le novizie ad estrazione plebea. In auge era, in quel periodo storico dello splendore della vita monacale, il pungente detto popolare:
“A San Micheli li superbi
A Santa Caterina li baggiani
A Santa Venera li arcinnirati”.
Il Largo, delimitato dalla Chiesa Sant’Agnese, dai due plessi scolastici Santa Caterina e Santa Veneranda, dala palestra allocata alla scuola elementare, ma in realtà per anni è stata utilizzata dal Liceo Ginnasio, è stato intitolato ad Alberto Rizzo Marino, figura di eccelso umanista ed immenso storico della città. Parlare di Alberto Rizzo Marino è parlare dell’anima della città e della sua storia, delle chiese e dei suoi vescovi, degli Ebrei mazaresi e dei Musulmani, della toponomastica e delle sue lapidi, della politica (sindaco, più volte assessore) e del movimento cattolico mazarese, dell’Accademia Selinuntina di Scienze, Lettere e Arti e dell’archivio storico diocesano, della storia del Liceo Ginnasio e dell’istruzione pubblica a Mazara, dei monumenti e dei suoi palazzi nobiliari, delle contrade e… e... Ma, soprattutto, fu uomo retto, “di fede cristiana autenticamente vissuta”. Non so se la dedica è stata una scelta o frutto del caso. Con certezza, so che molti suoi scritti trattano con amore e nostalgia della contrada del silenzio e del quartiere degli Ebrei.


Storia minima di città
Quando l'onta si lavava nei vicoli scuri
Polvere in estate e melma nerastra nelle stagioni piovose si fissavano sulle scarpe sgangherate degli abitanti, ma non di tutti. Alcuni potevano immergere soltanto i piedi nudi e induriti, segno dell’indigenza dei tempi, nella mota delle strade terrose. Non altro potevano fare gli umili pescatori dall’odore di salmastro incollato sulla pelle arida, resa dal sole quasi impermeabile all’acqua di cielo. Per le strade della Mazara di fine Ottocento. Gli amministratori della città, smaniosi di eliminare l’antico, erroneamente identificato con il vecchio, demolivano, il castello, le secolari mura, i bastioni e persino le Porte. Tale scelleratezza, tuttavia, consentì l’espansione del centro abitato al di fuori delle ormai virtuali mura. I pescatori, che erano insediati nei quartieri lungo il fiume, ormai carenti, trovarono nuove sistemazioni nel nascente quartiere Transmazaro e nel territorio attorno alla Chiesa S. Maria di Gesù, congiungendosi qui alla sparuta colonia di contadini. Unione allergica, secondo la tradizione, ma la necessità supera ogni barriera. I nuovi edifici che sorgevano di fronte alle scomparse mura nord-occidentali e nord-orientali, nell’attuale Corso Vittorio Veneto, erano occupati dai contadini, jurnateri e piccoli burgisi (lavoratori a giornata e borghesi). Gli artigiani risiedevano nella Piazza Porta Palermo, nella Via Bagno, nella Via Madonna del Paradiso, nella Via Sferracavallo; i commercianti ed i professionisti prevalentemente nella Via Garibaldi. I nobili e i benestanti avevano eletto le loro abitazioni nel cuore del centro antico, Via Garibaldi, Via XX Settembre, Piazza Plebiscito, Piazzetta Santa Teresa, Via Ospedale, Via Porta Palermo, Via Bagno, Piazza Ettore Ditta, Via S. Nicolò, etc. Il lavoro, avaro e amaro, iniziava ancor prima che l’aurora svelasse i suoi colori con i contadini che raggiungevano i loro poderi mediante carretti cigolanti o tramite pazienti muli, con i pescatori che entravano nelle fragili paranze a vela dopo avere implorato il Protettore mazarese nella chiesetta di San Nicolò Regale per un ritorno senza bufere. Per assicurare il semplice sostentamento della famiglia partecipavano al duro lavoro di campagna anche le donne e al periglioso lavoro in mare anche i bambini di nove, dieci anni, senza alcun rimpianto, semplicemente perché durante la quotidiana esistenza non avevano conosciuto niente di diverso dall’assidua fatica per desiderare altro. Lavorare soltanto per vivere la vita. Nel tardo pomeriggio o al calar della sera, quando per grazia di Dio cessava il lavoro sfibrante, o nelle giornate festive e feriali quando la pioggia e le tempeste impedivano il quotidiano tormento, non pochi contadini, pescatori, operai trascorrevano alcune ore nelle bettole tra il vino, il fumo e le carte da gioco. Le bettole costituivano l’unico svago per gli appartenenti alle diverse maestranze ed erano dislocate nei vari quartieri. I pescatori frequentavano quelle della Piazza Regina, Via Mazaro (l’attuale Via G. G. Adria), Via Bagno, Piazzetta Santa Teresa, i contadini, i pirriaturi (picconieri), li jurnateri, gli annetta fossi e i carrettieri bazzicavano le bettole di Corso del Popolo (attuale Corso Vittorio Veneto), Via Stovigliai (l’attuale Via Dante Fiorentino), Via Roma, Via Salemi, etc. Le fatiche, le asperità del lavoro, i rimproveri e i richiami degli odiati proprietari, le amarezze del guadagno insufficiente, la delusione e la disperazione del lavoro introvabile, le contenute lamentele e i pesanti silenzi della famiglia, le tristi prospettive di un’emigrazione in terre lontane e sconosciute, il muto dolore di un altro inevitabile naufragio, la paura irriferibile di un fato implacabile sempre in agguato trovavano il naturale sfogo in quelle anguste stanze adombrate dal fumo ed impregnate dell’aspro odore del vino. Lì decantavano tristezze, afflizioni, insoddisfazioni e sconforto con l’efficace antidoto del nettare dell’oblio, non curandosi della qualità del vino e delle diavolerie dell’oste per trarne più profitto. E lì nelle bettole, tra gli avventori, dall’intelletto offuscato dai fumi dell’alcool, le grida, le incomprensioni, le ostilità e, soprattutto, le offese banali, enfatizzate dal vino, cadevano come macigni, pesi insopportabili, ingiurie da cancellare, al più presto. A passi incerti tra la fievole luce dei lampioni per le strade ormai vuote e desolate, gli ingiuriati, abbandonati i gravosi fardelli mentali nella taverna, si portavano nei “posti” limitrofi per far valere la ragione della forza fisica, luoghi appena sfiorati o non affatto toccati dai riverberi luminosi, arrè lu cozzu, nei pressi della Via Vincenzo Leto, a lu purteddru, nella Via dei Mulini (Via N. Tortorici), e nel vicolo buio, accanto e dietro la Chiesa di Santa Veneranda, che andava ad immettersi nella Via Maddalena. E in quei vicoli scuri si lavava l’onta al solo luccichio di coltelli, affondati nelle misere carni, con le grida appena sussurrate, non per il dolore tenue, non per il taglio superficiale, quanto per l’orgoglio, colpito ma non soppresso. Il fioco riverbero della luna o il plumbeo cielo erano muti e impotenti testimoni, dolenti e gementi complici di duelli rusticani. A volte cruenti. Eppure il più degli abitanti aborriva il vino ed era piuttosto inconsueto incontrare ubriachi per le strade cittadine.


Racconto di vita di mare
“P’antichi vuci fi fàzzu sapìri Per antiche voci ti faccio sapere
chi nun pòtti firmàri lu màri che non ho potuto vincere il mare.
P’antichi vùci ti fàzzu sapìri Per antiche voci ti faccio sapere
chi nun sàppi attaccàri lu vèntu. che non ho saputo legare il vento.
Prima di mòriri, mòrtu anniàtu Prima di morire annegato
pinsà, ma fu sulu un mumèntu, pensai, ma solo per un momento,
cusà chi pi amùri, iu tòrnu. chissà se per amore io torno.
P’antìchi vùci ti fàzzu sapìri Per antiche voci ti faccio sapere
chi m’affirrài a ‘na stìzza di màri che mi afferrai ad una goccia di mare
e la mè vuci calàva ‘ntra ‘nfùnnu mentre la mia voce scendeva sul fondo
cu lu sapùru di sàli e d’antìcu… con il sapore di sale e d’antico...
sùpra ‘na pètra di mòrtu anniàtu” sopra una pietra di morto annegato.

                                                                                   (Nino Gancitano)


L'alba non era ancora spuntata
Ecco un altro giorno, grazie Dio mio. L’alba non era ancora spuntata, ma la luce, come sempre, poco dopo, avrebbe demolito il buio. I tre pescatori, alzatisi da un pezzo, alla fioca luce di una candela ad olio, stavano ponendo sul corpo annoso gli sciatti indumenti di lavoro. Avevano già preso un tozzo di pane e un pezzo di formaggio vecchio, da consumare durante la giornata, prima di percepire sul viso raggrinzito il freddo del mattino. Erano chiamati, I tre re, i tre fratelli, uomini di mare dalle rughe precoci, a nome Paolo, Vito e Salvatore Giacalone. A piedi nudi, si avviavano verso il piano della marina, incontrando pescatori che accennavano ad un saluto. Nel piccolo tempietto che scrutava il porto-canale, si impregnavano delle parole del sacerdote, estratte dal Vangelo. La messa quotidiana, prima della battaglia tra mare, cielo e il fato in agguato, era una tradizione di devozione, ma anche un’invocazione per potere strappare ancora un giorno alla morte incombente o era il proposito di ritornare senza macchia nella Casa del Signore, se le acque tempestose li avessero scagliati nell’abisso oscuro. Avevano saputo dell’ultima disgrazia, capitata qualche giorno prima. Il vento impetuoso e improvviso di febbraio aveva stroncato altre sette vite di pescatori, il padre con i sei figli, capovolgendo la barca, coprendo di fredda acqua salata gli sventurati e allungando il numero di donne vestite di nero e di bimbi privi della carezza del genitore. Erano ancora smarriti. Ogni anno due, tre o più naufragi. Quanti pescatori, parenti ed amici, a riposare sul fondo del mare e, forse, a disperarsi ancora, lì sotto, per i figli rimasti soli e senza sostentamento! Quel giorno della sciagura dei sette pescatori, una moltitudine appartenente al mondo della marina, si ritrovò sui massi informi della banchina di levante a tenere compagnia alle donne nell’illusoria attesa dei loro uomini. Anche i tre re avevano tributato testimonianza di presenza in silenzio, incapaci di devolvere un’ingannevole parola di speranza, ed avevano osservato le donne che, dopo le grida strazianti, dopo i nomi implorati al vento, le preci di lacrime salate al Santo Protettore, invano attendevano il ritorno degli affetti, invano alimentavano nel petto una speme, seppur frammenti di speme, spingendo lo sguardo disperato e speranzoso nel lontano orizzonte. Gli occhi dei tre pescatori furono attratti da una pallida ombra al vento, una donna muta ed appartata. Più non parlava, più non piangeva. Erano dune di sabbia i suoi occhi, aride pietre le sue labbra, un’assidua supplica la mente: la sua vita per sette vite. I tre pescatori, i più vicini alla donna ombra dal viso scavato, la sentirono sussurrare con flebile voce, supplicare con tono accorato:”Oh Dio, Dio degli umili e degli oppressi, Dio dei miserabili e dei dimenticati, non ho più lacrime da offrirti, non ho più dolore da donarti, prendi il mio silenzio, accetta la mia vita. Gesù, tu che tutto puoi, tu che hai risvegliato il perenne addormentato; tu, che, nelle sofferenze in Croce, hai patito anche il pianto e il silenzio angosciante della Madre tua, accogli il mio silenzio, solleva il mio spasimo, accetta la mia vita in cambio delle sette vite”. Il più anziano dei tre re lasciò andare i freni della mente :”No, no, Dio del Cielo, Dio del Cielo, non lasciare come sabbia al vento il pianto e il dolore di questa donna, dai ospitalità nel tuo cuore infinito alla supplica di questa mamma”. Sentivano gli occhi cedere i tre uomini di mare, ma le lacrime non si materializzavano, avrebbero voluto offrire anche la vita per risparmiare le sofferenze di quella madre. Le parole non servivano e non erano capaci di emetterne alcuna. Loro usavano le mani callose, dominavano la mente, combattevano le tempeste, sopportavano il gelo, tolleravano il caldo bruciante, accettavano la salsedine attaccata alla pelle e all’anima, faticavano senza limite di tempo, ma sconoscevano il pianto, anche se rarissime volte scioglievano la voce rabbiosa contro il nulla, chiamato destino. Volgevano lo sguardo alla donna, e poi al mare, al cielo, alla statua lapidea del Protettore, spiavano il linguaggio del vento e del fato imprevedibile. E poi gli occhi ancora a quell’ombra, madre e coniuge sconsolata. Ma quel giorno, il 24 febbraio 1895, non restituì alcuna vita alla madre addolorata. Ma ecco, arrivarono alla barca ancorata. Alzarono la vela e, lentamente, si mossero, con il cuore, sempre più piccolo, ad affrontare l’amico-nemico, il mare. Sfilarono davanti alla statua di San Vito, facendo un rapido segno della croce, ma quanti pensieri inviarono al loro protettore. Non certamente per ottenere un altro lavoro, più umano e più remunerativo. Pensieri impraticabili questi, poiché i pescatori erano da generazioni rassegnati ad una attività, iniziata all’età di dieci, dodici anni, e da concludersi con la fine della vita in terra o in mare. “Santu Vituzzu, lo so che questa è la mia vita, infarcita di sudori, di dolori, di stenti, di fame. Ma l’accetto, si, non mi lamento e d’altronde che cosa potrei fare ? Se mi permetto di infastidire Te, non è per chiedere un lavoro o una vita migliore, ma soltanto perché Tu possa tenere lontano tempeste ed uragani. Non per me che sono rassegnato al mio destino, che un giorno o l’altro mi strapperà brutalmente alla mia famiglia, ma per le bocche affamate dei miei piccoli figli e dei miei vecchietti che, come uccelli implumi nel nido, incapaci di volare, resterebbero soli senza aiuto e senza cibo. In ogni caso, a Te mi affido e in Te confido”. Quel giorno, insoddisfatti del mare ingeneroso di Torretta, scelsero, come zona di pesca, le acque di Capo Fedo, ad una distanza tale che si vedevano fievolmente le luci della città. Dopo alcune ore trascorse nella vana ricerca di un banco pescoso, ebbero la disavventura di incontrare una spessa coltre di caldo umido anticipante la nebbia che nascondeva le barche e le luci. Ascoltavano in silenzio i rumori e, per evitare incidenti, mandavano segnali a voce. Neanche i gabbiani tenevano compagnia. Ma dovevano perseverare, non potevano rientrare a mani vuote. Gettavano in fondo la rete e dopo un’ora circa la tiravano su con la sola forza delle braccia senza prendere un solo pesce. Tentavano e ritentavano, ma sembrava che il mare quel giorno avesse deciso di non donare alcunché ai tre pescatori che fino all’ultimo soffio d’energia non intendevano cedere. Quando il sole cominciò a calare, pure la volontà abbassò bandiera e i tre avviliti cristiani arrancarono a riva sfiniti, con il fiato grosso, senza un residuo di vigore per potere ancorare la barca. Lasciatala sulla spiaggia, spossati, si abbandonarono bocconi sopra la bianca sabbia. Il primo, mentre si lasciava cadere, con un filo di voce, sussurrò: “L’anno povero rende la vita amara”
E il secondo, abbattuto nel fisico e nell’animo, aggiunse: “ E la fa scellerata e crudele”
Il terzo, il più avanti negli anni, distrutto da questi continui travagli e tribolazioni, non riuscì a trattenere il pensiero: “ Io che sono nato quando le acque del fiume erano trasparenti, ora, arrivato all’ultima cala della vita, sono costretto a patire ancora per portare a casa solo nullità”. Fradicio d’acqua, ansimante, mentre il pesante corpo cadeva sulla sabbia, in segno di resa, imprecò:
Spalancati sepolcro, chè refrigerio è la morte per me
Quel giorno portarono a casa soltanto stanchezze e sfinimenti, ma non bastarono per sfamare la famiglia. E non fu l'unica volta.


Il Polpo e il frumento
Ad andatura lenta, molto lenta, quasi a passo d’uomo, Andrea guidava la sua auto sul litorale San Vito - Capo Granitola con lo sguardo rapito, alla sua destra, dallo spettacolo del mare, placido come la superficie dell’olio e dalle chiazze sparse di nitido colore azzurro, verde e blù. Sulla riva rocciosa l’immancabile presenza di bagnanti, distesi su teli di tinte appariscenti, intenti a farsi accarezzare la pelle dai raggi del sole di luglio e ad ascoltare, ad occhi socchiusi, le note melodiose provenienti dalle radioline. Il silenzio di quella domenica mattina era infranto solo dal rumore delle poche auto circolanti, ma poche ore ancora e il frastuono si sarebbe dilatato. Parcheggiò la macchina sul lato sinistro, su uno spiazzo a terra battuta davanti ad uno dei tanti villini, germogliati come funghi, a pochi metri dalla battigia. Lì doveva attendere, per qualche minuto, gli amici prima di recarsi assieme sulla spiaggia di sabbia bianca di Torretta.
Andrea si portò pigramente accanto al gard-rail, lo scavalcò agevolmente sopprimendo quel minimo di rischio rappresentato dalla scarsa circolazione di auto, ed attendeva svogliatamente indirizzando lo sguardo su ciò che la natura gli poneva davanti. Che mare limpido, che colori ! L’azzurro, il verde e il blu di quella immensa distesa, quieta e silenziosa, avrebbero dovuto denominarsi azzurromare, verdemare e blumare. Ma che sconcio quei bicchieri di carta, quelle bottiglie di vetro e di plastica, quel luridume, abbandonati sulle bruciate rocce! Cosa spingeva i bagnanti a disattendere le buone norme civiche del deposito dei prodotti di rifiuto negli appositi cassonetti, collocati a pochi metri? Era il piacere della violazione della legge o della ribellione all’enorme e caotico insieme di leggi e normative che portavano all’esplosione del rifiuto e al ritorno alla vita primordiale? Più in là ecco l’amico Salvatore dialogare svogliatamente e gesticolando con il cognato e poi ancora il mare e a pochi metri uno scoglio, come un isolotto bruno disegnato sulle acque azzurre. Ma cosa si muoveva sulla parete di quello scoglio? Non era un grosso polpo che se ne stava, quasi intontito a prendere il sole al pari dei bagnanti? Al pensiero seguì immediatamente l’azione. Tolse la camicetta adagiandola sul suolo, di corsa superò quella breve distanza dal mare, si tuffò senza destare schiamazzo alcuno, riemerse e con la mano decisa agguantò il polpo tanto sbalordito da non opporre resistenza alcuna.
Uscì trionfante dalle acque come un moderno Nettuno, con l’enorme mollusco cefalopodo nelle mani tra la sorpresa dei bagnanti, annichiliti dalla loro melensaggine, dal loro offuscamento visivo e mentale. Avevano avuto il grosso mollusco a portata di mano, ma non avevano saputo aprire gli occhi ed afferrare la preda. Salvatore, ripresosi per primo dallo sbigottimento seguito a quella scena, si rivolse con aria pseudoseria al pescatore d’occasione, dicendogli:
“Andrea, aspetta un attimo. Ascolta quello che ho da dirti. Guarda questa spiaggia, è l’esatta continuazione del mio villino e dello scoglio a mare. Questo non lo puoi negare. Questo polpo, che tu avidamente tieni in mano, io l’ho nutrito ogni giorno a a chicchi di frumento e, quando questi erano esauriti, con lo sguardo affettuoso, tanto è vero che ne è venuto fuori un polpo domestico, un mollusco casalingo. Appunto per questo tu non hai avuto difficoltà alcuna ad impossessartene e, pertanto, non puoi gloriarti di avere compiuto chissà quale grande impresa. Non ritieni, dunque, che io possa accampare qualche diritto e pretesa ? Su, lascialo stare!”. Andrea guardò fisso l’amico negli occhi, prese tempo e con altrettanto calma e compostezza gli rispose:
“Salvatore, ho ascoltato le tue parole, ho percepito il tuo rammarico. Mi hai convinto. Avanzo questa proposta che a me pare giusta e saggia e comunque immodificabile. Intanto io mi porto il polpo a casa. Questa sera lo preparo come merita e subito dopo averlo assaggiato, se saprà di frumento, io stesso lo porterò a casa tua !.” Quella sera, come prevedeva, il bagnante aspettò invano e, da allora, utilizzò il frumento per fini più pratici!


Quando i preti vestivano la tonaca nera
Quando i preti portavano la tonaca nera, il cinguettio avvolgente degli uccelli nel Piano Maggiore illanguidiva i pensieri, anemizzava gli umori dalle tinte cupe ed accompagnava l’onda nera di ragazzi e giovani seminaristi che,costretti ad indossare il nero abito monacale ed usciti dalle spartane aule del sapere, si dirigevano nella zona del Transmazaro a liberare le energie represse con i giochi all’aria aperta. Razione d’aria, di libertà e di sospensione delle punizioni. Un’altra marea nera di vedove, provenienti dall’hinterland mazarese, si muoveva, a passo celere, dalla stazione ferroviaria, verso i magazzini del salato, al di là del fiume. Vedove nere, private della vita del sostegno maschile e dell’apporto economico, obbligate ad un lavoro faticoso, temporaneo, da maggio a settembre, periodo della pesca delle sarde, alici e sgombri, per potere nutrire gli infanti ed evitare lacrime da fame. I canti dialettali durante il lavoro di conservazione sotto sale del pesce azzurro, in latte di diversa dimensione, consentivano l’allontanamento dei pensieri delle disgrazie familiari, dei bisogni, dei sogni giovanili tristemente naufragati. Mentre i neonati, ogni tre ore, erano condotti per la poppata, mista all’odore di salsedine, in una stanza, all’uopo assegnata.
Quando i preti portavano la tonaca nera, l’uomo cane della città del vento e del fiume indemoniato, dimorava nella stagione del freddo e della pioggia sotto i portici del seminario, accanto all’immagine della Madonna delle Campane e, nei mesi dell’afa e dello scirocco, ai piedi della statua di San Vito nel Piano Maggiore. Accettava la protezione dei santi, ma rifiutava il cibo dai cittadini, mossi da umanità e carità antica. “Le ho chiesto qualcosa?” obiettava in tono pacato. Ma gli stessi alimenti appoggiati ed abbandonati sul suolo erano, poi, recuperati quando nessuno poteva scorgere la sua mano allungarsi. Si nutriva degli avanzi ripudiati, non della carità non richiesta. Libero. Voleva essere svincolato anche dall’atto formale del ringraziamento. Sciolto, non prigioniero della carità altrui. Ma i fanciulli con la loro purezza di bimbi, avevano accesso in quell’armatura di protezione che era la dignità, l’orgoglio nella povertà e della libertà totale. Nella villa comunale, sembrava assorto nei suoi lontani pensieri, tuttavia osservava le verbene striscianti che mordevano il sole, con i petali, nella stagione dell’Elio raggiante, che riflettevano la luce sfavillante, come il lucore, lasciato dalla lumaca nel suo lento avanzare. E al calare della sera e dell’oscurità, non si accorgeva o non si turbava delle blatte che uscivano dalle tane umide ed affollate a pretendere il tempo del ristoro. Le sue apparizioni al fiume Mazaro, nei pressi di Miragliano o al fiume Delia, nascosto dai verdi canneti, motivavano, probabilmente, la sua purificazione corporea. L’uomo-cane, chiunque fosse stato, Tommaso Lipari o Ettore Maiorana, cicatrice sulla mano o meno, cercava solitudine, libertà nella solitudine, oblio dei pensieri, non abbastanza lontani nel tempo, non ancora sommersi nella non vita. Pace, aspirava alla pace, al silenzio dell’annullamento. Il suo segreto, il suo mistero, in tanti decenni, non ha voluto svelarlo. Perché cercarlo con ossessione ?
Quando i preti portavano la tonaca nera, i giovani liceali affrontavano un nuovo metodo di lettura delle lingue antiche, greco e latino, la lettura metrica, ritmata, una danza delle parole con il gioco degli accenti, il rispetto e, talora, l’annullamento degli spazi. La lettura musicale dei passi latini e greci infondeva la sensazione sperimentata nella prima classe elementare, quando il mistero delle scritte sul libro era svelato e si poteva leggere in modo fluido e semplice. Il “Va bene!” dell’educatore Bellitti non costituiva soltanto l’approvazione scolastica, ma la soddisfazione individuale di percorrere senza difficoltà un tragitto che sembrava tortuoso, di nuotare, restando a galla, con la percezione della capacità di possedere le acque del mare. Novità accettata era anche l’abbandono della rigida traduzione grammaticale per quella “libera” che consentiva alla mente di spaziare, di forgiare e comporre con parole proprie il senso del discorso. Finalmente l’utilizzo del proprio intelletto per una traduzione interpretativa, non più legata alle norme e al dizionario, ma alle proprie capacità. Non mancava, alla fine dell’anno, il compiacimento della guida che, pur dopo tante stagioni d’ìnsegnamento, si lasciava prendere dall’appagamento con un sorriso contenuto, appena abbozzato. “Anche per questo anno” forse pensava “sono riuscito a plasmare questa argilla amorfa ” Serietà e professionalità d’altri tempi, linguaggio forbito che, in principio, sembrava ricercato, ma in realtà era spontaneo e naturale. Gli apparteneva di diritto. Nei rarissimi momenti di rimprovero manteneva un tono fermo con parole garbate, mai al di fuori delle righe. Nel periodo estivo gli stessi studenti mantenevano il vezzo di paese, nella sera incipiente, di riunirsi ai tavoli del bar Sardo nella Piazza Mokarta, per lenire il caldo africano con il gelato o il caffè freddo con panna. Il rito giornaliero dei piccoli centri periferici, appartenuto alle generazioni precedenti, proseguiva con la passeggiata, lento pede, tra gli immancabili frizzi e lazzi lungo il periplo della virtuale città murata e la visita in auto dei locali notturni lungo le coste orientale ed occidentale.
Quando i preti vestivano la tonaca nera, la fumosa locomotiva, “la paparedda”, portava con sé le cassette dello zibibbo di Pantelleria assieme alla verde età della giovinezza, le opere dei pupi offrivano gli ultimi bagliori ai nostalgici delle imprese cavalleresche, i cacciatori sulla piattaforma del lungomare gareggiavano nell’abbattere piattelli indifesi, preludio della soppressione del canto nelle campagne e dell’eliminazione di usignoli innocenti, i barrocci stracolmi d’uva, trainati da cavalli che conoscevano e sopportavano la fatica a tutte le ore, durante la vendemmia, sostavano davanti alle cantine in attesa del turno dello scaricamento, nella spiaggia libera di Tonnarella non pochi bagnanti utilizzavano, come spogliatoio naturale, il canneto, accarezzato ed appena mosso dalla brezza del mare, i pescatori con i figli ancora bimbi e i contadini con i virgulti e le compagne di vita non conoscevano i colori, se non quelli del buio, del mare in tempesta, della paura, della pioggia, del fuoco, del sudore, delle membra squassate e, talora, il colore dell’inedia. Quando i preti sopportavano la tonaca nera, alcuni di loro comprendevano il percorso delle parole di conforto, dei sorrisi del cuore, delle soluzioni dei problemi. Sapevano fotografare il silenzio del dolore inesploso, delle illusioni precipitate, della fuga della preghiera dalle dimore di riparo e dai templi del rimorso e dell’assoluzione. Allora, come adesso, l’umidità dello scirocco e la sabbia rossa del Ghibli erano compagni di viaggio in questa città dove l’antico fiume ha bisogno, periodicamente, di straripare dai suoi confini per giustificare l’appellativo di spiritato, elargito dai Musulmani.

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