venerdì 30 ottobre 2009

Rocconti sui pescatori

UN GIORNO COME GLI ALTRI

“Supra di tutti c’è Diu chi sta ncelu,
dopu veni lu re, signuri di la terra.
E dopu li surdati di lu re,
e po’ li cavaddi di li surdati di lu re.
Doppu vennu li viddani, l’aivuli e li fogghi…”.
Canto popolare
(Sopra tutti c’è Dio che sta in cielo,/dopo il re, signore della terra.
E dopo i soldati del re,/e poi i cavalli dei soldati del re.
Infine i contadini, l’alberi e le foglie….)
E i pescatori?
I pescatori, un tempo, non dilapidavano le parole, non partecipavano i loro pensieri, ma con i soli tozzi di pane, senza lamenti e senza pianti, come foglie al vento, vivevano la vita. Ogni mattina, ancor prima che l’aurora mostrasse i suoi colori, dopo avere dedicato una prece al Signore degli umili e dei potenti, durante la messa mattutina, alzavano la vela e lentamente, con il cuore scuro, iniziavano un’altra giornata di passione. Erano giunti a qualche miglio dalla riva di Capo Fedo, i pescatori della paranza a vela, Divina Provvidenza. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Il cielo, anche se incerto e piagnucoloso, non sembrava ostile e i cinque uomini di mare, taciturni e tristi da sempre per esperienze strazianti, erosi dal sole e dalla salsedine, da alcune ore lavoravano rimuovendo dalla rete pesci lucenti. Un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette. Silenzioso per indole, anche il giovane Francesco, di appena diciassette anni, ma già da cinque aveva assaporato le sofferenze di tale mestiere, ripeteva i gesti lavorativi del padre Giovan Battista Trinca, di cinquantaquattro anni, dello zio Giuseppe Trinca, di sessantaquattro anni, dell’amico Pietro Di Maria, di trentasette anni e del di lui figlio, Salvatore, ragazzo di dodici anni, che, da due stava patendo le tribolazioni della vita di mare. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Improvvisamente, in quell’immenso silenzio di mare e di cielo, un lieve rumore. Videro davanti a loro, non molto lontano, vento e acqua alzarsi a vortice, come una montagna, dal mare verso il cielo. Atterriti, rivolsero immantinente il pensiero al protettore San Vito, ma le parole non fecero in tempo ad uscire dalla bocca ché, in un lampo, furono scaraventati, dopo un volo di alcuni metri, nelle fredde acque del mare di marzo. Avvertivano l’acqua salata scendere nella gola, gli occhi spalancati bruciare, il sangue pulsare, le orecchie fischiare, mentre i corpi precipitavano verso il fondo. Strinsero i denti, spinsero con disperazione, con le mani e con i piedi, l’acqua verso il fondo e, mentre i corpi fluivano verso l’alto, intravedevano sopra la luce sempre più vicina. Come il sughero dal fondo del mare, sale impetuoso all’aria e dopo ricade rimanendo a galla, così i pescatori, mentre mostravano i primi segni di asfissia, emersero dall’acqua all’aria bramata e benedetta con la testa, con le spalle e con il tronco. Il padre, Giovan Battista, ancor prima di respirare, emise un grido angoscioso e lungo, Francescoooo, alla ricerca dell’amato figlio, fino a quando non lo vide e non lo sentì tossire con gli occhi rossi e con la bocca aperta. Per un attimo il suo grido si incrociò con quello disperato di Pietro di Maria, Turiii. Si guardò intorno. Erano tutti a galla, Francesco, Giuseppe, Pietro, Salvatore, la barca capovolta, la vela a brandelli, tavole e pezzi di legno sopra il mare quietato. La tromba d’aria aveva bussato ancora per pretendere il suo consueto tributo. Con sforzi sovrumani, i pescatori rovesciarono la barca, la svuotarono dell’acqua come meglio potevano, anche a mani unite, e tentarono di guadagnare la spiaggia a forza di remi. Ma la paranza, non completamente vuota, andava a rilento e le forze dei pescatori erano prossime all'esaurimento. Arrivati a mille metri circa dalla riva, decisero di abbandonare il loro mezzo di lavoro e di sopravvivenza e di proseguire a nuoto. Ma le acque gelide toglievano il fiato e l’energia e, ad un certo momento, le forze vennero meno. Le braccia erano piombo, il petto ghiaccio, il cuore batteva come un orologio, la bocca aperta ed il fiato grosso. Erano ormai immobili i pescatori, come una calamita il fondo del mare li attirava. Si stavano arrendendo al fato, sterminatore degli umili, quando sentirono voci di speranza: “resistete, resistete, stiamo per arrivare”. I finanzieri della casermetta, vicino al mare, già li aiutavano a calpestare la sabbia. Entrarono nel piccolo edificio, umido e scalcinato. L’anziano Trinca, assiderato e stremato, fu aiutato e portato sopra un materasso. Tremavano tutti e si coprivano con coperte di fortuna. Si accostò, Giovan Battista, al fratello maggiore con una coperta per allentare il freddo e il tremore. Ma non tremava più, Giuseppe, non parlava più, aveva lasciato per sempre stenti e sofferenze, aveva trovato, alla fine, la pace tra le braccia capienti del Signore, dopo una vita di lavoro e di muti lamenti. Non piangeva l’uomo di mare davanti alla dipartita del fratello, osservava il vuoto, scrutava il mare pacato, guardava ma non vedeva e non fiatava. Da sempre sapeva che questo lavoro è fame, sudore e lacrime di sangue. Da sempre. Pensava che questo spietato e immutabile destino dei pescatori, ogni giorno in agguato, era, alla fine, arrivato per suo fratello, ma non aveva vinto. Non era stato capace, no, il fato maligno, di tenersi il corpo nel fondo del mare. Qui era, qui, il corpo di suo fratello per potere accogliere il pianto e le grida di dolore della moglie e del figlio. Il figlio Ignazio, trentenne, cieco e paralitico, che poteva solo sentire la voce e la carezza, ma non vedere la mano del padre. Ora nemmeno questo. Che aveva avuto di così tanto nella sua esistenza per patire quest’altra penitenza ? E la moglie Quinci Antonina, di sessantatré anni, come doveva sopravvivere, adesso, negli ultimi suoi anni? Non parlava il figlio Francesco, sfinito, accovacciato in un angolo della stanza, non parlava Pietro Di Maria, rannicchiato, tremante sul pavimento, non parlava Salvatore, in preda ai brividi di freddo, accoccolato accanto al padre. Non parlavano i finanzieri, angosciati da tanta tragedia, non soffiava più il vento, non era più inquieto il mare. Non fu un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette.

(Enzo Gancitano)



VOCI DAL FIUME
“Tri la vittiru l’aliata fina / nivura all’ali l’aliata fina,
lassari Mazara e la marina / Unu arricchì, unu invicchì
lu terzu murì e mancu vulìa / prima di riri beddra Maria”.
Canto popolare mazarese


In un tempo non lontano, in un tempo chiaro della memoria che vive, in un tempo della giovinezza che corre, che fugge lasciando scolpiti ricordi vividi ed immagini splendenti, quando l’aurora stenta ad aprire la strada al nuovo giorno, i lampioni elargivano una timida, sommessa luce per vincere la residua oscurità e il silenzio gratificava l’ultimo tozzo di sonno. In quel rione, nei pressi del fiume, ad ogni albeggiare, irrompevano le voci argentine dei mozzi, ragazzini insonnoliti, ad invitare alla sveglia i componenti degli equipaggi per una nuova battuta di pesca con la cantilena monotona ed assimilata. Paese di mare, paese di fiume, paese di gabbiani, abituali sorveglianti del tempo, delle acque fluviali e delle acque del mare.
Le due rive del Mazaro, con il vecchio ponte, erano zone di frequentazione quotidiana per coloro che lì erano nati e che lì risiedevano, a due passi dal fiume. Incontrare pescatori, dai visi precocemente invecchiati per l'azione assidua del sole, della salsedine o per le inquietudini e i pensieri imprigionati, era ovvio, naturale, come respirare, inconsapevolmente, l’aria che sapeva di mare. Questi luoghi appartengono alla fanciullezza e, adesso, ai ricordi di coloro che accolsero il sole, la pioggia, l’odore del mosto, il sopore del fiume dormiente e il rumore della sua rabbia antica, le voci di tutto quello che qui si muoveva e viveva: i pescherecci, i magazzini del pesce, le fabbriche di ghiaccio, i pescatori con la loro religione del silenzio in casa e fuori, anche i saluti, prevalentemente accennati, l’odore della nafta, il ghiaccio caduto per le strade, l’odore dell’acqua stagnante, la visione di anziani, a piedi nudi, immersi nel fango nero, sotto il ponte, per la raccolta della “trimulina”; i ragazzi, dall’aspetto di scugnizzi, raccogliere vongole, il fenomeno del marrobio con le acque del fiume che inondavano le banchine e le campagne circostanti, lasciando pesci storditi accanto alle viti. E voci di fanciulli alla ricerca di granchi lungo il molo, di giovinetti temerari ed imprudenti che si libravano dalla sommità dell’arcata del ponte verso l’accogliente fiume, il rumore dei motori dei natanti e delle officine meccaniche, il lento fluire della chiatta che collegava le due sponde del Mazaro, di fronte al mercato-pesce dal quale rimbombavano le voci degli astatori, il suono crescente della sirena a segnalare l’apertura del mercato pesce nelle ore pomeridiane, il sole estivo che induriva ed anneriva la pelle, e gli odori e i tanfi che, ancora, si conservano nella mucosa delle narici. E dalle bitte, lungo il fiume, nei diversi punti, i rumori della battitura della ddisa (ampelodesmos) con martelli in legno, ad opera di anziani nassaroli, che avevano lasciato, ma non dimenticato, le sofferenze e i colori del mare e del cielo e che pativano, adesso, il malessere dell’astinenza. E il paesaggio delle dimore con i tetti di tegole d’argilla e con “l’astraco” (terrazzo) con la madia colma dell’estratto di salsa o di pomidori e fichi spalancati ad essiccare al sole dell’estate, accoglieva il martellio caratteristico, nei cantieri navali, del lavoro di calafataggio dei carpentieri che, con scalpello e mazzuolo, introducevano la stoppa (canapa) nelle connessure delle tavole in legno dello scafo, seguito dall’immissione della pece calda, con il suo odore peculiare, per renderle impermeabili all’acqua. Suoni non assordanti, suoni non insopportabili, suoni divenuti elementi ripetitivi, essenziali per il corpo e per l’anima. A distanza di tanti anni, talora, i prigionieri delle memorie non possono fare a meno di concretizzare le vecchie immagini, con malinconiche escursioni solitarie nei percorsi abituali dell’infanzia, lungo il fiume, lungo stradine, quasi senza vita, senza bambini, senza voci, senza i lampioni dalla luce fievole, fissati alle pareti delle abitazioni, senza i passi pesanti dei pescatori di un tempo. Solo fantasmi del passato con i muri dilaniati dal tempo e dalle intemperie, solo quiete dell’abbandono corrotta da voci arabe, riappropriatesi della città antica, a pochi metri dalle case della spensieratezza. Un tempo, solo ieri nelle ideazioni mentali, ad ogni edificio volti familiari, visi di rughe e salsedine, con la storia scritta sulla pelle e sui muri, gioie e drammi, naufragi con la fine della voce, eccezionalmente effusa. Quando le acque gelide del mare s’impadronivano dell’alito vitale di alcuni compagni dell’infanzia, i ragazzi, taciturni, affollavano le dimore del pianto e del dolore, dove le madri levavano nell’aria dell’angusto ambiente familiare quel dolore che non riuscivano a tenere dentro. Gemiti necessari, indispensabili, come acqua sul fuoco dell’anima. Mani, occhi, parole ora sussurrate, ora sgolate, proiettati verso il cielo, verso il Dio degli umili, verso il Dio degli oppressi, verso il Dio dei dimenticati, verso il Dio dei morti annegati :”Padre, nostro rifugio e nostra consolazione, perché ci hai abbandonato?”. Non riuscivano ad imprecare le donne, urlavano la delusione della protezione mancata. Gli uomini, in un angolo umido della dimora, ostentavano la consueta maschera del silenzio. I volti, sofferti, travagliati, pallidi, gli occhi sperduti, profondi, colmi del dolore che fuoriusciva dal cuore, riparo di quelle parole gravose che la bocca non sapeva emettere, che la mente rifiutava di conservare; quegli occhi ripieni, traboccanti del mare impetuoso, del sale che brucia, dell’orrido lamento del vento, dell’immagine nelle acque tempestose di una mano che, invano, implorava aiuto, mentre sprofondava, fissavano il nulla, tendevano nella direzione di una voce di cordoglio, ma le labbra serbavano l’immobilità. Solo l’automatismo degli arti consentiva loro di stringere mani di conforto in silenzio.
In quel quartiere, come negli altri sorvolati dagli uccelli di mare, il dolore era da sopportare, da soffocare, le parole erano da imbavagliare, le lacrime che, da tempo avevano smarrito la strada della luce, erano da frenare, da deglutire, l’acre sudore quotidiano da accettare. In quel rione dell’umiltà, dove l’imprecazione contro il fato era dimenticata e l’esecrazione infieriva solo contro la miseria ed il sorriso era solo un accenno e la religione era necessità per l’oblio delle pene e l’affetto era solo nelle carezze di mani ruvide e callose, non nelle parole bloccate, e nel contatto negato delle labbra, e lo sguardo lontano era intento ad occultare paure e il pianto era solo goccia di mare essiccata, la sera dopo la frugale cena, quando la calura asfissiante dell’estate cedeva al respiro possibile, le donne del martirio casalingo portavano le sedie sulla strada, davanti alla porta di casa, per beneficiare della fine del lavoro. Ma gli uomini no. Sul giaciglio adagiavano il corpo fiaccato per affrontare all’alba un’altra battaglia. Gli uomini di mare…. gli uomini di mare…I pittori, con i loro colori ricercati negli impasti cromatici, hanno mai privilegiato i volti della gente di mare, come Van Gogh fa con i contadini, con i mangiatori di patate, con gli umili dalla vita colma di pene e dolori, come Monet esegue con le barchette? Pescatori, con le rughe sul contorno degli occhi, con gli sguardi scuri, immensi e tristi, con la lingua, forse atrofica, per i movimenti mancati e per le parole non profferite. Hanno mai scoperto con le tonalità dei colori, cosa sono conservate nelle rughe precoci? Sole, sale, gelo, paura, sudore? Hanno mai scoperto cosa nascondono la profondità e la tristezza degli occhi? Timore, uragano, montagne d’acqua, lamento del vento, il grido agghiacciante dei pescatori rapiti dagli abissi marini, la voce del fato, la morte? Hanno mai scoperto il mistero di quelle labbra? Cosa hanno mai pronunciato a parte le invocazioni nel pericolo in mare : Dio mio, Dio degli umili, Santu Vituzzu a te affido la mia vita martoriata? Hanno mai aperto, guardato, letto, toccato quelle mani rugose e hanno mai scoperto l’enigma della loro durezza e del loro contenuto? Lavoro, sudore, il gelo del trapasso della speranza, qualche rara tenera carezza ai figli che la lingua non sapeva elargire a voce ? Gente di mare, gente dalla vita sospesa tra un alito di vento, un refolo di salsedine, uno sguardo di sollievo agli affetti, il timore di una tormenta in agguato ed una pallida e dubbiosa speme in un nuovo albeggiare. Con l’atroce, eterno fato degli umili, con l’incedere pensoso, con il pianto senza lacrime, con l’antico crepuscolo delle illusioni. Voci del fiume. Voci approdate nel fondo del mare, nella terra dei cipressi, in terre lontane dalla lingua che tradisce, nelle rughe della vecchiezza, nella prigione della solitudine, nel dolore della memoria, nel rimpianto dei tempi uccisi. (Enzo Gancitano)

giovedì 29 ottobre 2009

Circolo Filatelico

Uno dei tanti Circoli Filatelici che abbiamo aperto e che non hanno mai avuto terreno fertile, era ubicato in piazza Matteotti
Anni Novanta - Inaugurazione e benedizione dei locali sociali
Andrea Santostefano (presidente), Don Vito Calandrino, Ciaramitaro, Valerio Catalano, Tino Maniscalco, Signorelli, Nicola Bianco

Silvio Manzo, Nino Gancitano, Pino Sardo, Rinaldi, Vincenzo Giammalvo, Gancitano, Pino Catalano, Rita Mangione, Graziella Ciulla

giovedì 15 ottobre 2009

Mazara dei Pescatori



Parte seconda


Una delle tante immagini del Marrobbio

giovedì 8 ottobre 2009

Spigolature


A la balata liscia
Vuole la tradizione mazarese che nei secoli XVII, XVIII, XIX i cittadini che non avevano onorato la restituzione di un debito, venissero sottoposti ad una condanna coram populo, davanti al popolo. Questa punizione esemplare, di verosimile derivazione normanna, “coram populo a la balata liscia”, consistente nel fare rotolare nudo il colpevole sul fondo stradale di dura pietra liscia, veniva eseguita nella discesa che va dalla Piazza Purgatorio fino alla Via Marina che costeggia la chiesa di San Nicolò Regale, davanti a due ali di folla urlante. Ne seguì un canto popolare:

“Stricà lu culu a la balata liscia
na la scinnuta di lu Piatoriu
a Santa Niculicchia mi purtaru
retti li cianchi e retti li viogna
ma la viogna mè fu na la facci”.
Ho sbattuto i glutei sulla pietra liscia,
mi condussero alla discesa del Purgatorio
fino alla chiesa di San Nicolicchia.
Ho battuto i glutei e i genitali
ma la vergogna mi è rimasta sul viso.

E’ probabile che da questo fatto del passato derivi l’espressione mazarese “va runa lu culu”, piuttosto che dare altro significato poco elegante.


Dagli scritti inediti di Filippo Napoli, pubblicati da Gianni Di Stefano
Altra condanna coram populo.
Intorno alla metà del 1800 un’ordinanza borbonica imponeva che gli aggressori e i portatori d’armi venissero sottoposti alla condanna del “cavallitto” da effettuarsi nelle piazze della città e, prevalentemente, nella Piazza Porta Palermo sempre davanti al popolo vociante. I colpevoli, a viso coperto, erano collocati e legati su un cavalletto, in posizione bocconi, e sottoposti a randellate fino allo stremo delle forze, da parte di un battitore mascherato. Eseguita la punizione coram populo, in mezzo ad una moltitudine di cittadini, il reo veniva condotto nelle locali carceri per scontare il resto della condanna.
Altre condanne, coram populo, erano eseguite nei secoli scorsi, ma, se volete, ne parleremo in altra occasione.

mercoledì 7 ottobre 2009

Patronato Scolastico

I Patronati scolastici erano enti di diritto pubblico, sorti per iniziativa di privati, al fine di indurre i fanciulli ad iscriversi alla scuola e a frequentarla. Si occupavano anche di far arrivare ai bambini bisognosi gli aiuti, in vesti ed in oggetti scolastici, distribuiti dalla locale Congregazione di carità o da privati. Le prime norme in materia sono contenute nel R.D. del 16.2.1888. I patronati scolastici e i loro consorzi furono soppressi il 24 luglio 1977 e le loro funzioni sono state attribuite ai comuni.

1956 - Refezione scolastica
Albertina Dado, Pino Romagnosi (maestro)

Befana 1961
Filippo Marrone, Pino di Liberti con la piccola Antonietta 


1964 - Salone della scuola sita in piazza Santa Veneranda. 
Presidente pro tempore Alberto Rizzo Marino, vice Pino Romagnosi
Foto ricordo Maetsri - Distribuzione dei doni natalizi agli alunni da parte del Patronato*
Nicola Lombardo, Francesco Giorgi (seminascosto), Vito Lo Castro, Nicola Lombardo, Giovanni Pugliese, Placido Maltese, Tonino Catalano, Pierino Cusumano, Rallo, Banì Bua, Vincenzo Tumbiolo, Pino Romagnosi, Giuseppe Ferotto (PA), Onofrio Ivaldi, Giuseppe Mauro, Vincenzo Inzerillo (segretario), Cocò Scaduto, Nicola Savalli, Tonino Ferrantello, Vitale Incalcaterra, Alberto Rizzo, Mario Balsamo


1964 - Salone della scuola sita in piazza Santa Veneranda
Foto ricordo Maestre - Distribuzione dei doni natalizi agli alunni da parte del Patronato
Vita Tumbiolo, Giovanna Serra, Vincenza Ingargiola, Calandrino, ?, Maria De Simone, Rosa Antero, Pina Papa, Giovanna Lanzarone, Vitale Incalcaterra (direttore didattico), Graziella Passiglia (segretaria), Gaetana Bellitti, ?,

Pesca di beneficenza organizzata a scuola
Nino Messina (direttore), Banì Bua, Cocò Scaduto, Manlio Urso, Vito Crimaldi (bidello)


30 marzo 1967 - Santa Veneranda II Circolo Didattico
Alberto Rizzo marino (presidente), Vitale Incalcaterra (direttore didattico)


Tonino Ferrantelli (maestro), don Gaspare Morello (preside Liceo), Nino Messina (direttore didattico)

Fine anni '60 - Primo Circolo Didattico
Giovanni Di Simone, Vitale Incalcaterra, Girolamo D'Andrea (sindaco), mons. Giuseppe Mancuso, Purpi (provveditore agli studi), Nino Messina

Manifestazione del Patronato scolastico
Cocò Scaduto, Angela La Marca, Giovan Battista Asaro, Baldassare Bua, Accardi (presidente patronato), Andrea Terranova, Bartolomeo Pacetto (direttore poste)


Alberto Rizzo Marino - mons. Giuseppe Mancuso

martedì 6 ottobre 2009

Irene Marusso: insegnante, scrittrice, poetessa

Irene Marusso (1913) (nata Russo sposata Marrone). Ha pubblicato: “Clessidra ” (poesie); “Uomini al sole” (racconti); “lo, l'africana ” (poesie); “Domicilio coatto ” (teatro); “La bellezza della vita ” (romanzo - rinnegato peri molteplici e gravi er¬rori tipografici); “Sulla sponda del fiume, ad occidente” (poesie); “Vita sul fiume” (romanzo) ; “Annotazioni ” (poesie); “Racconti siciliani ”; “Se torno biografa di me stessa ” (poesie); “Una moglie frigida ” (romanzo); “Dal trauma del nascere ” (poesie); “Umanità alla sbarra ” (romanzo); Appigli, 1987 (poesie); Mensomatosis, 1992 (poesie).

Plesso Santa Caterina- Irene Russo (nel ruolo di maestra)
Maestra Irene Russo Marrone



Scuola Media "Giuseppe Grassa" - Incontro con gli alunni


Irene Marusso, Nino Contiliano, Anna La Melia

POESIE

(Da: “Gli eredi del sole”, 1987)
Naufragio

Distaccarsi dal ramo
foglia morta su mucchi di letame
e odore d'altri tempi
che investe quest'inverno
trepido a morire.
Memorizza il gabbiano sogni d'aria
e si spiuma al mattino
nella nebbia bassa
che sovrasta il canale.
Altre mattine
percorrevano venti alle marine
e il berretto strappato al marinaio
non pesava
più del suo corpo impigliato alla rete.
Adesso il pianto
ha sinistre risonanze
sui fianchi delle barche
e se l’alba ci dona speranze
è come un'offesa al dolore.




(Da:”Appigli”, 1987)
Platone docet

Per tanti anni legata alla grotta
come una bestia ferita
e solo qualche barlume
qualche luce improvvisa da incenerire
chi non fosse stato d'amianto.

Adesso amo la mia natura forte e provata
in continuo travaglio e in continua ripresa
allineata al vivere convulso
e al magistero di letture inquiete
di scritture discontinue.

Forse anch'io araba fenice
piccola donna che ha infranto catene
che ha valicato montagne
che ha saltato fossi senza paure.

Nell'universo brulicante di sollecitazioni
ho imbroccato la via giusta
quella che va verso il sorriso
di albe mediterranee
di tramonti africani stemperati nel sangue
e di affetti legati al filo del cuore.
TUTTO GIOIA DEL VIVERE.



Eredi Di Artisti

La natura marcescibile arricchita
da nuovi flussi sanguigni
sta generando una vita nuova
pure nell'amplesso non vivificato
da cellule germinali.

E il frutto si matura in altro alvo
meno materia e più spirito
meno istinto e più consapevolezza
consapevolezza di ricchezza cromosomica
che mi ha fatto erede di artisti
nell'utero della madre
ed esplosione di ardita fierezza
nel seme del padre
occhiazzurri - normanni.



(Da: “Metensomàtosis”, 1992)
Il mio fiume
(prima parte)

Un fiume
pigro oleoso denso di nafta
ma pure vivo per tanto
sfiatare di sirene.
Culla dei miei progenitori
- piccoli mercanti -
e ora ricchezze di squame d'argento
tradotte in miliardi.
Traffico da capogiro
uomini di colore alle banchine
pescatori non piú a piedi nudi
abiti firmati e profumi costosi.

Alla foce si fa sogno
il mare
lago limpido e terso
sotto il sole d'inverno
vecchio paradiso accarezzato
dai tempi delle canoe
nei silenzi incontrastati della natura
quando il tonfo di un ciottolo
lanciato a pelo d'acqua
aveva un suono armonico
ora ucciso dal rombo dei motori
che costruiscono denaro per chi
di denaro è avido.


Il mio fiume
(seconda parte)

Il mio fiume non canta piú.
Denso, oleoso, si muove indolente
si attacca ai fianchi delle barche
alle rive non erbose
agli anfratti delle grotte
nelle quali un tempo
cantavano, sì, gli aedi
convenuti alla fonte d'Ippocrene.
E c'erano allora aranci e zàgare
a profumare l'aria
e l'arabo inseguiva la fanciulla
per piegarla sull'erba.

Ora è un triste silenzio
e se gracida la rana
o gracchia il corvo
ci si allontana spediti
per scendere alla foce
godersi l'abbraccio del mare
che spuma allegro
sui fianchi delle barche giovani
quelle che corrono all'avventura
predatrici di vite guizzanti.
E se il canto non è sinfonia
c'è un suono tonfante di tamburi
legati a gridi di vittoria
o a frullare di danze
eterno retaggio nella mia terra
dirimpettaia dell'Africa nera.



Scientifica

Questo alternarsi di segni
questo vivere coi cicli della luna
un giorno cara ai poeti
- ora depauperata dai rari silenzi –
guardata come magìa incombente
sui giorni umani.
Alternarsi di cicli come maree
sulla nostra psiche
oceani che assalgono le battigie
che impongono anche alternanze
alla nostra natura
fatta pure di acqua.


Il Filo E Il Fuso

Nessuna maga
ha tramato la mia tela.
Il filo e il fuso sono solo miei.
Li custodisco
in un angolo della mente
al riparo da occhi indiscreti
e non perché sia gelosa
dei miei arnesi
solo che mi piace
tirarli fuori a sorpresa
per filare
e poi stendere una trama
sul foglio bianco nel quale
la mia anima si coagula
in zampette d'insetti
parole forse poco decifrabili
geroglifici per interpreti
adusi a giochi di poesia.

E anche questo partire e tornare
è una tessitura che giova
al mio cuore - contenitore
che dalla Sicilia reca
il suo vaso di Pandora
e da Roma riporta il senso dell'Eterno.

venerdì 2 ottobre 2009

Lucio Zinna


Nato a Mazara del Vallo (1938). Vive a Palermo. Ha pubblicato:
Poesia
Il filobus dei giorni, Palermo, Editoriale M. A. David Malato, Quaderni del Ciclope, 1964; Un rapido celiare, Palermo, Quaderni del cormorano, 1974; Sàgana, Crotone-Palermo, Il Punto, 1976; Sàgana, con 5 acqueforti-acquetinte di Angelo Denaro, Firenze, Edigrafica, 1978; Tabes, con 4 litografie a colori di Franco Lo Cascio e uno scritto di Alfredo Todisco, Treviso, La Cave d’Arte, 1979; Sàgana/2, con 3 acqueforti–acquetinte di Angelo Denaro, Palermo, La Bottega di Hefesto, 1986; Abbandonare Troia, Forlì, Forum/Quinta Generazione, Collana “Poesia 80”, 1986; Bonsai (con 3 dediche grafiche di Nicolò D’Alessandro), Palermo, I.L.A. Palma, 1989; Sàgana e dopo, Ragusa, Cultura Duemila, 1991; Rugaciune pentru eliberatori (traduzione di Stephan Damian), Craiova, Editura Europa, 1991; La Casarca, Palermo, La Centona, 1992; Il verso di vivere, Marina di Minturno, Caramanica Editore, 1994; La porcellana più fine, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2002; Poesie a mezz’aria, Faloppio (CO), LietoColle, 2009.
Narrativa
Antimonium 14, Palermo, Quaderni del cormorano, 1967; Come un sogno incredibile – Ipotesi sul caso Nievo, Pisa, Giardini, 1980; Il ponte dell’ammiraglio e altre narrazioni, Palermo, Thule, 1986; Trittico clandestino, Siracusa, Ediprint/Arnaldo Lombardi, 1991; Quando bevea Rosmunda, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2001; I pugnalatori del 1862; Il delitto Notarbartolo in G. Mele, A. Vecchio, L. Zinna, I «Gialli » di Palermo, Palermo, Antares, 2005; Il caso Nievo – Morte di un garibaldino, Marina di Minturno, Caramanica, 2006.

Saggistica
Le antinomie del quotidiano nel Preludio di «Marionette, che passione…!» di Rosso di San Secondo, in Aa.Vv. Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana del Novecento (a cura di A. Pellegrino), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990; Il «nero» canto del cigno, in Av. Vv. Omaggio a Marino Piazzolla, vol. II, Roma, Fondazione Piazzolla, 1993; Amare pieghe di una dimensione selvaggia, in Aa.Vv. Attardi – Del corpo, nell’anima, Palermo, Kaleghè, 1998; Sicily (testo critico e antologia) in Dialect poetry of Southern Italy (a cura di L. Bonaffini), New York, Legas, 1999; Nietzsche e Kafka, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2001; Due letture dantesche, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2002; Nino De Vita e il mondo di Cutusio, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2002; Gli equilibri della poesia, Quaderni di Arenaria, Palermo, 2003; La parola e l’isola – Opere e figure del Novecento letterario siciliano – Palermo, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, 2007; Perbenismo e trasgressione nel “Pinocchio” di Collodi, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2008; Il mondo narrativo di Luciano Domanti. Palermo, ILA Palma, 2008; Stagioni della vita e metafore della “soglia” nel realismo radicale di Leopardi, Palermo, Quaderni di Arenaria, 2009.
Traduzioni
Paul Valéry, Il cimitero marino (con testo a fronte), in «Nuovo Romanticismo», Palermo, n°2, 1984; Pierre-Jean Jouve, Primo amore, in Une sorcière blonde – Poesie d’amore del 900 francese (a cura di A. Cappi), Editoriale Sornetti, Mantova, 1999; Guillaume Apollinaire, Il ponte Mirabeau, in «Nuovo Frontespizio», Rimini, a. XXV, n.s., n°1, giugno 2003. Traduzioni dal siciliano di testi poetici di; Giovanni Meli, Alessio Di Giovanni, Ignazio Buttitta, Santo Calì.


1990 - Palermo
Lucio Zinna, Mario Luzi
POESIE
(da “Poesie a mezz’aria”, Lieto Colle, 2009)

Per Vincenzina

Considerò ogni motivo di alterazione
immeritevole di attentare alla sua calma
operosa tenne fede ai segreti e i suoi consigli
di vaste saggezze spianarono le occasioni
che li generarono. Giungono anche a me
pacati ora che il bambino di un tempo
è divenuto un «distinto signore»
che ha trovato e smarrito la sua «mezza
età» (e i consigli dovrebbe darli lui).
Doviziosa non di denari accrebbe con azioni
non quotate in borsa le risorse del marito
assistente di farmacia facendo capitale
dell'accorta gestione domestica.
Nel dopoguerra in cui il cibo era zaffiro
e ametista — e ancora dopo — mendicanti
e clochard scandirono la sua giornata
sul battente della sua porta. Lei moltiplicò
pani e pesci (e gnocchi e mele e fagioli)
poiché nei poveri riconobbe il Cristo
(e lui la riconobbe agnello del suo gregge).
Morì povera e fu non eclatante esempio
di santità inconsapevole se non clandestina
di cui tutti s'erano accorti tranne lei
e la parrocchia frequentata al minimo influente.
Ti canonizzo io zia Vincenzina
nel dantesco «lago del cuore»
senza postulatori e avvocati del diavolo
né cerimoniali stendardi immaginette
senza nemmeno le preghiere di cui i santi
«veri» pare vadano ghiotti.



Come un Antifaust
Dagli anni cumulati nel ricordo
(a immediata percezione paiono
giorni e sono invece materia
di densa biografia) derivo –
e assaporo – questa imprevedibile
sempre incompleta messe
di esperienze (solitamente
spacciata per saggezza) incapace
di stare ai canoni a volte fastidiosa
nella gestione strategica
del quotidiano. Con cartesiane
chiarezza ed evidenza ora ri-considero
alcune intuizioni-chiave di età
adolescenziale e il resistere eroico
di giovanili ardori (poi che tende
la vita all'autotutela).
Vado confermando la convinzione
di non voler tornare indietro (ove
possibile) come un antifaust
che non ha anima da vendere
(né donare). Mi tengo com'è
questo straccio d'anima
con suoi errori risorse rimpianti
parimenti elevabili a potenza.
Centellino l'incipit di questo
declinante lasso come di primo
mattino la tazzina di caffè
o un petit di slìvovitz a cena.


Canzone Triste per un Piccolo Indifeso
Chi permette che il male biologico
e la violenza e la stupidità (la bêtise
flaubertiana) si riversino
sull'infanzia e gli indifesi?
Da quale cielo può consentirsi
lo squarcio di tenere esistenze?
Me lo chiedo ora che gli anni
non mi sono più lievi
e dovrei conoscere la risposta.

Ribollono le cronache di variegati
orrori insiste l'uomo a farsi
di se stesso nemico costruisce alibi
si fa scudo del divino per sopprimersi
pur di sopprimere.

Continua il tarlo a chiedere
quote alla nostra corporale
fragilità. Ascolto la storia
del bambino finito da una rara
forma leucemica mentre a fili
di pena luminava una speranza.
Una Via Dolorosa percorsa
da Salvatore di Roccapalumba –
scomparso all'età di cinque anni –
che attese un difficile intervento
«anche a vivo pur di guarire» –
confidò – come chi è maturato
all'algido fuoco della sofferenza.
A lui gli anni erano cresciuti addosso
correndo impazziti sul quadrante.

In quale cielo si recidono steli per farne
putti di corti celesti quale Dio creerebbe
così i suoi angeli quale Dio mio Dio?
A sussurri ci giungono strazianti responsi
dagli indifesi – fanciulli barboni passanti
animali fiori e quanti e quanti – piccole
vite accucciate nel cuore sulla ripida via
del nostro dirci «uomini». Esserlo.

giovedì 1 ottobre 2009

Mimma Barbera

Un Tuffo nel Passato

I colori della Sicilia, i suoi odori, i sapori di quei piatti squisiti, le sue bellezze, la spontaneità delle persone, il senso di ospitalità che hanno tutti… ma avevo dimenticato tutto questo?
No, stava solo nascosto in un angolino del mio cuore , ed è bastato che mettessi i piedi sulla mia terra, perché mi tornasse in mente tutto ciò che di bello ho lasciato, quando, ancora ragazza, ho deciso di partire.
La commozione di essere tornata a Mazara del Vallo,dopo tanti anni, è stata grande, si perché Mazara è la città in cui sono cresciuta, la città che mi ha visto bambina, poi adolescente e poi ragazza.
Ecco l’edificio della scuola elementare femminile! Lì ho imparato a leggere e scrivere, e poi la scuola media statale; adesso in quell’edificio non c’è più la scuola media e difronte hanno allestito dei locali dove è esposto il Satiro danzante, mirabile statua in bronzo ritrovata nei fondali di Mazara qualche anno fa, e il liceo G.G.Adria… il lungomare , il porto, la villa con i suoi ficus secolari, la cattedrale!.
Oddio quanti ricordi! I miei occhi si riempiono di lacrime, e davanti alla mia mente scorre una vita, la mia vita, quanti ricordi! Quante persone care che non ci sono più! Ma è davanti alla scalinata della chiesa di S. Giuseppe che non riesco più a trattenermi e le lacrime traboccano dagli occhi senza sosta… e vedo mio padre… sta lì, in fondo alla scalinata e mi grida mentre io scendo vestita di bianco (dolce bambina che ha appena fatto la prima comunione):” Mimma hanno estratto il numero tuo alla lotteria di quella bambola che tanto desideravi!!”
Gesù ti ha fatto il regalo nel giorno della tua prima comunione!!!

La commozione è troppo grande, sono venuta con degli amici, così cerco di non farmi aggredire dai ricordi, e li conduco in giro per Mazara, orgogliosa di mostrare loro la mia bella terra.
(12 ottobre 2009)