sabato 3 novembre 2012

Rosario Lentini

Storia Patria


Quando il cotone e la giummara…

Correva l’anno 1852, più precisamente il 12 giugno, quando il giovane Angelo Nicolosi veniva ammesso agli studi nel prestigioso Istituto Agrario Castelnuovo di Palermo. Si trattava del primo mazarese il cui nome ritroviamo nell’albo degli allievi della scuola, con accesso al Convitto come “pensionato” a carico del comune di provenienza (20 onze l’anno). Solo 8 alunni, per disposizioni testamentarie del fondatore, erano quelli “da mantenersi franchi”. Passeranno dieci anni – 7 novembre 1862 – prima che un altro mazarese, Giuseppe Gallo, venga iscritto a frequentare la scuola palermitana.
Pur se le origini dell’Istituto risalivano al testamento del 1822 di Carlo Cottone, principe di Castelnuovo (1756-1829), il Seminario scolastico e il relativo Convitto, sotto la supervisione amministrativa di Ruggiero Settimo, furono inaugurati nel 1847 e affidati alla direzione scientifica del professor Giuseppe Inzenga che, quattro anni dopo, avrebbe diretto gli «Annali di agricoltura siciliana», periodico anch’esso voluto dal fondatore, che si sarebbe imposto nel panorama siciliano delle riviste specializzate.

Nel volgere di poco tempo, l’Istituto, grazie alla cospicua dotazione finanziaria conferita dal principe e al patrimonio immobiliare e fondiario destinato allo scopo – la villa in contrada ai Colli e i terreni annessi che fungevano da campo sperimentale – diventò scuola di riferimento per la formazione di agronomi e di gestori di aziende e di fattorie agricole, in grado di accogliere a pensione fino a un massimo di 32 studenti. Il regolamento della scuola esplicitava l’obiettivo didattico principale: «formare agricoltori intelligenti e pratici, che possano o prestarsi utilmente all’ufficio di buon fattore, o ben coltivare la terra per conto proprio».

È bene ricordare che Carlo Cottone, aristocratico di formazione liberale, arrestato nel 1811 e deportato a Favignana per essere stato il principale oppositore della politica finanziaria borbonica – poi liberato grazie all’intervento del plenipotenziario britannico Lord William Cavendish Bentinck – ebbe un ruolo decisivo, insieme all’abate Paolo Balsamo, nella stesura della Costituzione siciliana del 1812. L’Istituto da lui creato testimoniava della sua visione modernizzatrice dell’agricoltura siciliana, mirante a stimolare l’impiego di maggiori capitali, a promuovere riforme e ad elevare il livello di istruzione di base e agraria dei contadini.

Nell’edificio realizzato dall’architetto Antonino Gentile, al piano superiore, oltre alle aule per la scuola, i locali vennero destinati a museo di agricoltura, sala per le osservazioni meteorologiche, gabinetto dendrologico con una ricca collezione di legni siciliani, biblioteca, erbario, semenzaio, cappella e scuola primaria gratuita, aperta anche ai ragazzi della contrada, nella quale si adottava il metodo di insegnamento Lancasteriano (gli alunni adulti più bravi insegnavano ai più giovani).

Lo studente Nicolosi, quindi, ebbe modo di ritrovarsi in una situazione ottimale per la sua formazione, iscritto direttamente alla terza delle tre classi di studio previste dal Regolamento dell’Istituto: primaria (da 8 a 10 anni), preparatoria (da 10 a 13 anni) e agricola, detta anche “di coltivazione”; a quest’ultima si accedeva all’età di 13 anni e la durata del corso era quinquennale.

Gli insegnamenti teorico-pratici, con l’assistenza di un fattore e dei contadini che operavano stabilmente nel campo sperimentale, riguardavano sia l’agricoltura che la pastorizia e per completezza e vastità erano davvero in grado di offrire un quadro completo e articolato delle diverse questioni agronomiche. Si procedeva inizialmente con lo studio dei terreni, e si proseguiva con gli “ingrassi” (uso dei letami animali, delle sostanze vegetali, delle alghe marine ecc.); gli “ammendamenti” (uso di sabbie, argille, ceneri, fanghi, ecc.); gli strumenti e le macchine agricole; il lavoro (tempi e modi in relazione ai terreni e alle colture); la coltivazione (selezione e uso delle sementi, metodi di seminagione); le piante da foraggio, i cereali, le piante industriali, le piante spontanee e quelle parassite, gli animali nocivi, l’orticoltura, l’arboricoltura (soprattutto ulivo, frassino, pistacchio, gelso e carrubbo), l’arbusticoltura (vigna, sommacco, ficodindia, avellana, ecc.), il giardinaggio e numerosi altri temi essenziali, incluse lezioni di ampelografia: “Delle diverse varietà delle viti considerate sul rapporto del prodotto nelle diverse località”.

Nicolosi ebbe due compagni di corso molto speciali: il siracusano Ferdinando Alfonso, futuro docente di agraria, nonché direttore dell’Istituto Castelnuovo dopo Giuseppe Inzenga e l’alcamese Girolamo Caruso che dal 1871 al 1917 avrebbe insegnato agronomia, agricoltura ed economia rurale all’Università di Pisa.

Nel 1858, quindi, completato con successo il percorso di studi teorico-pratici, fece rientro a “Mazzara”, trovando immediatamente lavoro come “fattore” presso l’azienda agraria di Vito Favara Verderame (per la prima volta sindaco della città in quello stesso anno) e cominciando a svolgere, contemporaneamente, un’apprezzabile attività di studio e di redazione di articoli e saggi brevi su temi di agricoltura, come corrispondente mazarese degli «Annali». Con comprensibile soddisfazione, lo stesso Giuseppe Inzenga segnalava, nel 1863, le pubblicazioni scientifiche dei suoi ex allievi ed, in particolare, riguardo al Nicolosi, richiamava la Coltura del cotone in Mazzara, scritto per un periodico torinese eNotizie sul cotone e suo tornaconto in Mazzara, pubblicato nel citato periodico dell’Istituto.

Il tema della coltivazione del cotone era tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, per effetto dell’innalzamento dei prezzi di quello americano – largamente importato in Italia – a causa della guerra civile tra secessionisti e unionisti d’oltreoceano (1861-1865). Le poche filande attive in Sicilia – tra le quali quella di Vincenzo Florio, impiantata a Marsala, all’interno della sua fattoria enologica – potevano trovare vantaggioso approvvigionarsi del prodotto indigeno, pur se meno pregiato di quello della Virginia. Gli articoli di Nicolosi sull’argomento erano frutto di esperienza diretta, come da lui stesso precisato: «[…] fatti raccolti da una costante osservazione di più anni, e da esperimenti su larga scala praticati: e già posso mostrare a chiunque, in prova del mio asserto, un campo suburbano, proprio di questo benemerito Favara Verderame, coltivato a cotone con un metodo razionale da me adottato, e che s’informa ai principii esposti in questo lavoro, carico a strabocco di capsule in via di maturazione, in contrapposto di altri cotonieri adiacenti ancora appena in sull’allegare».

Negli anni successivi inviò altre brevi corrispondenze alla redazione palermitana degli «Annali»: su un aratro costruito dal fabbro mazarese Michele Lo Presti, identico ad un modello scozzese; sulla coltura delle cucurbitacee a secco e sull’impiego delle vacche nei lavori ordinari di campagna. Ma è soprattutto nel saggio sulla Chamaerops humilis, meglio nota come Palma nana (dial. Giummara), che Nicolosi forniva una rappresentazione fedele delle attività collegate alla lavorazione delle foglie di questa pianta mediterranea: «Essa copre immense lande della nostra zona marittima, e talvolta associata all’Arundo ampelodesmos Cyr o ddisa, veste le aride pianure dell’isola per tratti vastissimi. Le sue foglie, sempre verdi e d’un color cupo, fanno un bel contrasto nella calda stagione, coprendo il suolo d’una folta verdura, con la generale aridità dei terreni argillosi, che restano nudi e secchi dopo il taglio delle piante cereali». A prima vista – osservava Nicolosi – sembrerebbe una pianta tanto spontanea quanto inutile e persino di ostacolo ad altre colture, ma nei terreni aridissimi «è una fortuna il possederla, sia come argine al tracimare dei torrenti, […] sia come combustibile per le fornaci di calce e le stufe inservienti alla industria ceramica, come altresì per pascolo del bestiame bovino, il quale non disdegna di nutrirsene nei mesi estivi». Durante l’estate i contadini staccavano con le mani le foglie giovani dal centro del fusto della palma, mentre con una apposita ronchetta tagliavano le foglie esterne più verdi e più vecchie; tutte venivano stese al sole e girate e rigirate ogni due tre giorni per farle seccare; «Bene asciutte, le legano in fascetti di 100 per uno assortite, e queste in più grossi mazzi da 1000; in tal modo si trasportano nei magazzini al coperto». Le lacinie delle foglie si attorcigliavano in corde di varia grossezza e lunghezza e se ne faceva molteplice uso sia domestico che agrario; si utilizzavano, per esempio, per legare le canne nei tetti delle abitazioni, come pure i vitigni e i pergolati ai tutori; con le corde più grosse si legavano i buoi, i muli e gli aratri; sostituivano in tutto e per tutto le funi di canapa. Con le foglie più resistenti si fabbricavano le scope (granate); «In Mazzara principalmente, ove l’industria in parola dà lavoro e pane a migliaia di individui, si fa esteso commercio sì delle granate che di talune corbe di varia dimensione, preferibili alle ceste di vimini, o di schegge di legno, per tante ragioni. Le corbe e gli altri oggetti di costruzione identica si fanno con la treccia intessuta con le lacinie delle foglie, o zinnitte. Questo lavoro viene eseguito dalle donne, che si mostrano veramente sollecite in simile arte e sanno ricavarne molti lucri». Nicolosi ci ricorda anche altri manufatti dalla lavorazione di questa fibra vegetale: le grandi ceste denominate zimmili, da porre sugli animali da soma, utilizzate per caricarvi paglia, fimo, cereali e mercanzie di ogni genere; i cappelli fatti con la treccia più tenera e bianca «buonissimi per la gente di campagna, la quale usandone in està si difende dagli ardenti raggi solari».

Ma d’estate si svolgeva anche una seconda importante operazione, specialmente nei terreni destinati alla cerealicoltura, cioè la debbiatura, previo incenerimento dell’intera palma nana che a colpi di zappa veniva sradicata e tagliata; poi, insieme ad altre piante spontanee e selvatiche, tutto il fogliame, i fusti e le frasche venivano ammonticchiati, ricoperti di terra e bruciati a lentissima combustione, fino al completo incenerimento. «Quando si vedrà essere terminato l’abbruciamento dei cumuli, si lasciano senza ulteriore lavoro fino all’epoca della seminagione; allora con le corbe e con le zappe si spande ugualmente su tutta la superficie del terreno la cenere e la terra carbonizzata, arando e riarando per la successiva semina del grano, il quale nei terreni così addebbiati viene sempre d’una bontà meravigliosa. Questo è ciò che chiamano i nostri pratici fare il terreno a munziddati».

La coltivazione e lavorazione del cotone, del lino, della canapa, della palma nana, nonché l’orticoltura, erano tasselli importanti del mosaico agricolo mazarese che si affiancavano alla cerealicoltura, alla viticoltura e all’olivicoltura, con significativi risultati reddituali.

Rileggendo gli articoli di Angelo Nicolosi, si accede immediatamente alla realtà economica del mondo contadino mazarese, che fino alla prima guerra mondiale si mantenne vitale e produttivo, non ancora surclassato dal settore della marineria. Le tracce bibliografiche di Nicolosi si perdono dagli anni ’70 dell’800, ma, come spesso accade, ulteriori ricerche (anche anagrafiche) potrebbero riservare altre sorprese sulle sue ulteriori attività.

Riferimenti bibliografici 
G. INZENGA, Descrizione dello Istituto agrario Castelnuovo, Tip. Della Forbice, Palermo 1863.
A. NICOLOSI, Alcune osservazioni sulla cultura del cotone in quel di Mazzara, «Annali di agricoltura siciliana», anno XI-1865, pp. 195-217.
IDEM, Sull’utilità della Chamerops humilis L. in Sicilia, «Atti della Società di acclimazione e di agricoltura in Sicilia», tomo VIII-1868, pp. 370-376.

venerdì 2 novembre 2012

Fedelissimo, devotissimo e scostumato popolo di Mazara tra ’700 e ’800

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Mazara del Vallo, Piano maggiore, acquaforte di Louis Depreé, 1743-1804
di Rosario Lentini
Nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1798, mentre l’esercito francese avanzava in direzione della capitale partenopea, re Ferdinando di Borbone e la regina Maria Carolina si imbarcavano sotto protezione britannica a bordo del Vanguard, la nave ammiraglia di Nelson, per trovare asilo a Palermo, confidando – soprattutto la regina – di potere presto organizzare dalla Sicilia la riconquista del regno meridionale. In realtà il rientro a Napoli sarebbe avvenuto solo a giugno del 1802 e non definitivamente; il re, infatti, fu costretto a una seconda fuga a Palermo per rimanervi altri dieci anni, dal 1806 al 1815, periodo questo che lo vide pienamente impegnato a coltivare la sua grande passione per la caccia e per la pesca del tonno. Poche settimane prima che Ferdinando IV lasciasse la Sicilia, i giurati che amministravano Mazara, il 22 maggio 1802, gli inviarono una “supplica” per cercare di porre rimedio a una grave mancanza commessa dal procuratore degli interessi della città presso il Parlamento siciliano il quale, contrariamente a quanto avevano fatto i rappresentanti di Marsala e di Salemi, aveva trascurato di avanzare richiesta al re di elevare il consiglio civico mazarese al rango di Senato:

«giacché è in grado di meritarla [la grazia] con maggior ragione di tutte le altre, per essere un’antichissima, e Fedelissima Città, Capo di Valle, e di Diocesi, e Sede Vescovile, decoratissima per la di lei Fedeltà di tanti speciosi [speciali] Privileggi, fra i quali di quello amplissimo del Mero, e Misto Impero, di cui non è fregiata detta Città di Marsala, sollevata a detta decorazione».

Tra i privilegi, basti ricordare anche quello concesso da Ferdinando II nel 1507, in forza del quale i mercanti mazaresi erano esentati dal pagare il diritto doganale dovuto all’Erario regio nelle immissioni e nelle estrazioni tanto per mare che per terra [1]. Perciò, insistevano i giurati nel testo della lettera,

«essendo la stessa Città [Mazara] Capo di Valle, e Capo di Diocesi, e trovandosi le dette Città di Marsala, e di Salemi aggraziate [cioè già beneficiate del provvedimento regio in questione] dependenti, e soggette a questa Città, come quelle, che sono situate dentro del Valle, e dentro la Diocesi di questa stessa Città, sembra mostruoso, che la Madre, o sia il Capo delle medesime sia sfornito di questa prerogativa, che godono le dette sue dipendenti Città».

In buona sostanza, con la supplica a firma del sindaco Francesco de Girolami e Marsiglia e dei tre giurati Francesco Sansone, Nicolò Marzo e Nicolò Vajasuso [2], si intendeva sottolineare l’incongruenza che si era venuta a determinare – non per responsabilità regia – di due città collocate al rango superiore rispetto a quella da cui dipendevano amministrativamente. Tuttavia il danno ormai era fatto e la questione sarebbe stata affrontata alla successiva convocazione del Parlamento; ma, come spesso accade, il sopraggiungere di eventi ben più rilevanti sospese la valutazione del provvedimento e solo nella seduta del 10 luglio 1806 Mazara ottenne l’ambito riconoscimento: «Il diploma – notava Filippo Napoli – fu firmato il 9 Ottobre e la deliberazione divenne esecutiva il 10 Novembre quando furono pagati tutti i diritti stabiliti per simili grazie»[3].
La-pesca-del-tonno-a-Solanto-part.-di-Paolo-De-Albertis-prima-metà-XIX-sec.
La pesca del tonno a Solanto, part., olio su tela di Paolo De Albertis, prima metà XIX sec.
In quelle stesse settimane, mentre gli amministratori mazaresi attendevano con ansia un riscontro alla loro prima “supplica”, il vescovo Orazio La Torre inviava al re una lunga lettera datata 26 settembre 1802, dal contenuto davvero allarmante, sotto il profilo della moralità e del costume sociale, avente per oggetto il dilagare delle bestemmie e del libertinaggio a Mazara e nei comuni della sua Diocesi.  Ma perché il vescovo scriveva al re e non al pontefice? Non va dimenticato che la Chiesa siciliana dipendeva dal sovrano sin da quando, nel 1098, papa Urbano II aveva designato “Legato pontificio” il re normanno Ruggero (e i suoi successori) che aveva liberato l’Isola dai Musulmani. A questi competeva, quindi, nominare vescovi, istituire diocesi, presiedere sinodi:

«Il ruolo di legato apostolico del re – scrive Gaetano Zito – era reso a tutti evidente nelle cattedrali: in ciascuna di esse, dirimpetto al soglio episcopale vi era quello del sovrano, di tre gradini più alto e sul lato sinistro della navata da dove, lui o per lui il viceré, partecipava alle celebrazioni liturgiche, soprattutto nelle solenni cappelle reali»[4].

 L’istituto dell’apostolica legazia sarebbe stato soppresso solo dopo l’unificazione nazionale, con la legge del 13 maggio 1871 (cosiddetta delle guarentigie) ma i sovrani della dinastia borbonica non furono da meno di chi li precedette nell’avvalersi di questa prerogativa e, per esempio, proprio Ferdinando IV nel 1799 disponendo

 «i più severi castighi contro il vizio esecrando della Bestemmia, che annunzia una perfetta irreligione, il libertinagio nello smodesto vestire, con cui si presentano sin nelle chiese le disoneste donne, le canzoni oscene, le publiche impudicizie, ed i giochi proibiti»[5],
dava incarico ai parroci, ai rettori delle chiese locali e ai vescovi di vigilare e di richiedere anche l’intervento delle autorità di governo «per porre un argine alla scostumatezza, all’Empietà, ed allo scandalo»[6]. Perciò l’iniziativa di monsignor La Torre – originario di Palermo, assegnato a Mazara nel 1792 – rientrava pienamente nel quadro dei rapporti di fisiologica subordinazione che il mondo ecclesiastico doveva mantenere nei confronti del sovrano e il contenuto della lettera tendeva a mostrare non solo lo zelo nell’esecuzione di una disposizione regia, ma anche a stigmatizzare il comportamento complice di quelle autorità che avrebbero dovuto supportare gli ecclesiastici:
«Ma ad onta della voce dei Sacri Ministri divenuta rauca, delle publiche rimostranze di Religiosa Pietà, e Zelo, la licenza, e sfrontato libertinagio impuniti, i vizii protetti, le impudicizie e scostumatezze già publiche, e senza rossore, non solo anno trattenuto l’impetuoso loro corso, anzi, con il più alto sentimento di grave cordoglio nell’animo mio, e dei miei Curati, si sono a dismisura accresciuti, e se ne vede di molto ingrossare la corrente dalla quale quei pochi, che sin oggi l’anno scanzato, sono in pericolo di venire trascinati. […] Il soggetto principale delle rimostranze dei Curati di non poche chiese della Diocesi commessami, è la manifestazione dell’indolenza di taluni ministri dai quali ricercano l’appogio della forza, e a loro viene assolutamente negata in faccia, o non curata la loro istanza e ciò perché alcuni di essi trovansi infangati negli stessi vizii per arrestar li quali si dimanda il Castigo, o perché tali altri che viver vogliono sopra la carica, sono corrotti dal danaro, che li somministrano i malviventi, o perché altri deboli, e contemplativi, non vogliono urtare con le persone potenti nei rispettivi paesi: ond’è che di detti Sacri Ministri non pochi mi dimandano la loro dimissione della Cura, che senza alcun frutto spirituale le fatica di molto, e li espone a pericoli certi d’insolenze, e della vita» [7].

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Maria SS.ma del Paradiso, olio su tela di Sebastiano Conca, 1760 ca.
Nonostante, però, questa rappresentazione inquietante dello stato della morale pubblica e persino della pubblica sicurezza – religiosi minacciati e in pericolo di vita – nel volgere di pochi mesi il vescovo mazarese tornava a scrivere al re per informarlo dettagliatamente del pieno successo delle celebrazioni svoltesi in occasione della «solenne coronazione della Sagra portentosissima Immagine di nostra Signora del Paradiso, che si venera con molta universale devozione nell’Oratorio della S. Casa degli Esercizj fuori le mura di questa Città»[8].
Come noto, sin dalla prima manifestazione miracolosa del 1797 [9], la devozione popolare per il quadro lacrimante crebbe enormemente in breve tempo, coinvolgendo anche gli abitanti dei paesi vicini. Perciò, il 10 luglio del 1803, si svolse la celebrazione principale nella cattedrale mazarese, preceduta per diversi giorni da sermoni quotidiani di un «celebre» missionario della diocesi. La partecipazione di popolo ai riti e per venerare l’immagine della Madonna fu rilevante e di certo alimentata dalla possibilità di conseguire l’Indulgenza plenaria, «concessa in questa particolare circostanza a tutti i Fedeli, che confessati, e comunicati fossero intervenuti alla Funzione solenne, o almeno visitassero la Sagra Immagine».
Il vescovo, inoltre, teneva a sottolineare nella sua lettera che i parroci lo avevano assicurato del gran numero di confessioni e comunioni somministrate ai fedeli, maggiore di quanto registrato durante il periodo pasquale. Tutto sommato, quindi, la gran quantità di libertini, di scostumate e di potenziali assassini, almeno per l’occasione, aveva dimostrato di volersi redimere o, quanto meno, di volersi concedere … una pausa, chi per riflettere, forse pentirsi e chi per non dare troppo nell’occhio.
Si tenga presente che a quella data la popolazione mazarese contava circa 9.000 unità e un numero di sacerdoti pari a 108 di cui 30 considerati «inabili al sagro Ministero per vecchiezza»[10]; di certo sembrarono tantissimi all’ufficiale della marina inglese William Henry Smith una decina di anni dopo, rimanendo tanto sorpreso «dalla molteplicità di istituzioni ecclesiastiche e dall’elevato numero di rappresentanti del clero, da trovare del tutto comprensibile l’origine del proverbio “che ogni casa e tugurio di Mazzara contiene un prete e un porco”»[11].
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mons. Orazio La Torre, vescovo della Diocesi di Mazara dal 1792 al 1811
L’elevato numero di ecclesiastici non riguardava solo Mazara, ma tutte le diocesi dell’Isola; nel 1737 – come stimato da Francesco Maria Stabile – escludendo chierici, monaci, suore ed ecclesiastici in genere, in Sicilia si contava mediamente un sacerdote ogni 98 abitanti [12]. Nel 1799, effettivamente, questo rapporto era più elevato a Mazara (1 ogni 83) – anche in ragione del fatto di essere sede vescovile – contro 1 ogni 151 a Trapani [13], 148 a Castelvetrano [14] e 105 a Marsala  [15].
Il re consentì che la prevista processione per le vie della città con il dipinto raffigurante il volto della Madonna si potesse effettuare, in via del tutto eccezionale, nel pomeriggio, a conclusione dei Vespri solenni, anziché nella mattina.

«[…] Nel corso di questa Sagra Ottava e Triduo che con il giorno della Coronazione tennero occupato il Popolo per lo corso di dodici giorni non si vidde ne in Città, ne in Chiesa, ne nella gran folla alcun menomo disordine, ne è succeduto il menomo sconcerto.
La sincera devozione mantenne nel gran Concorso il buon ordine conservato dagli atti di Cristiana Religione. Ed il felice esito, che corrispose alla pietà de’ comuni desiderj relativi a celebrarsi con pomposo festino una così nobile e sagra Funzione ha impegnato l’attenzione mia a parteciparne l’Ecc.a V.ra, cui auguro mille benedizioni dal Cielo, mentre ossequiandola pieno di rispetto mi confermo.
Di V.a Ecc.za
Dev.mo Osseq.mo Servo Vero
Orazio de la Torre Vesc. Di Mazara»

 Per quel che sappiamo è improbabile che re Ferdinando dedicasse tempo alla lettura di libri – li detestava – e, per quanto religiosissimo, ancor meno ne dedicava a quella delle lettere del La Torre o di chiunque altro; c’erano i suoi consiglieri e ministri e c’era Maria Carolina, regina di carattere, colta e intelligente, a occuparsi della corrispondenza e degli affari interni. Tuttavia avrebbe sicuramente apprezzato un passaggio della lettera del vescovo mazarese di “respiro” politico:

«Stimai inoltre accompagnare alle solenni cerimonie una Sacra Omelia da me fatta per animare la Sagrosanta Religione, ed il particolare Culto della Vergine Madre del Salvadore, quali sostegni principali della Corona, ed Avvocati nelle grandi Calamità presso la sdegnata Onnipotenza, che si è benignata a loro intercessione preservare i nostri Religiosissimi Sovrani, ed il Regno nostro dalle comuni disgrazie, che l’Europa ha sofferto, e soffre».

 Il riferimento alle guerre napoleoniche era implicito quanto evidente; a marzo di quel 1802 era stato firmato un trattato di pace ad Amiens tra Napoleone e l’Inghilterra nel quale era stato previsto, fra l’altro, il ritiro delle truppe francesi dal regno di Napoli a fronte di quello degli inglesi dall’Egitto. Ma fu semplice tregua tra belligeranti, che sarebbe durata appena un anno; altre processioni e omelie sarebbero state necessarie per preservare il «Regno nostro» e assistere al declino della parabola napoleonica.
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Stemma del vescovo Orazio La Torre
Monsignor La Torre mostrava, quindi, di saper coniugare l’azione pastorale nei confronti del suo gregge, con la visione generale del benessere dell’istituzione regia: la cura delle anime dei suoi fedeli e l’invocazione, mediata dal simulacro mazarese della Vergine, a protezione del sovrano. Probabilmente in questa sua strategia della comunicazione alcuni accenti erano deliberatamente più acuti del dovuto, quali ad esempio quelli sul degrado morale e sulla scostumatezza dilaganti, forse per dare maggiore enfasi al successo religioso dei riti, delle cerimonie e delle processioni, misurato in termini di grandissima partecipazione di popolo. Così facendo, però, sopravvalutava il concetto di religiosità popolare, ignorando la commistione di sacro e profano, di autenticamente spirituale e di puro conformismo, che hanno sempre contraddistinto queste manifestazioni, analizzate in modo approfondito dalla letteratura antropologica novecentesca [16].
La società mazarese rappresentata nelle due lettere dal vescovo La Torre appare dunque stereotipata, quasi irreale, frutto di una visione manichea: da una parte il mondo ecclesiastico a difesa della «Sagrosanta Religione» e dall’altra un popolo dalla spiccata predisposizione al peccato. Come se non fosse vero che lo stesso clero nel suo complesso fosse affetto dal male endemico di una generale concezione dell’accesso alla vita sacerdotale più per alleggerire le famiglie numerose che per vocazione; collocare una figlia in convento o un figlio in seminario equivaleva a trovare un’occupazione sicura. E come se non fosse vero che molti religiosi dedicassero poco tempo all’esercizio delle proprie funzioni per gestire, invece, affari, svolgere attività di commercio o prestare denaro.
Tutto sommato, dunque, quel popolo non era poi così libertino e neppure tanto religioso; perciò, se Ferdinando IV tralasciò di leggere la lettera di monsignor La Torre non lo si può rimproverare.

Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019

giovedì 1 novembre 2012

Pin Pong Categotia singolo

1/11/2013

Federica Cudia
La 23enne mazarese Federica Cudia ha vinto la medaglia d'oro nella categoria singolo di ping-pong al torneo Internazionale paraolimpico che si sta disputando in Belgio. Ha battuto in finale la forte francese Marie-Christine Fillou con il risultato finale di 3 a 1. Federica è si trova dal 30 ottobre con la nazionale paraolimpica 
italiana, guidata dal direttore tecnico Alessandro Arcigli, a Saint-Niklaas, città nella regione fiamminga del Waasland, a quaranta minuti da Bruxelles. Due giorni dedicati a singoli di categoria, due per la gara a squadre, con rientro fissato per il 3 di novembre. Il primo Open del Belgio vede impegnati 170 atleti di venti nazioni diverse. Solo tre gli italiani in gara: Federica Cudia, Marco Santinelli e Daniel Paone, tutti alla ricerca di risultati importanti e punti utili per la qualificazione.
L'atleta siciliana ha sconfitto, prima di arrivare in finale, avversarie molto difficili, fra le quali un'altra francese, la Flot, in semifinale. Questo pomeriggio si disputerà il doppio. Grande gioia per la madre di Federica, la signora Piera Sinacori che segue con molto impegno ed intensità le gesta della figlia che ormai occupa i vertici del ranking mondiale nella disciplina del tennistavolo. "E' una vittoria - ha detto Piera Sinacori - che premia tutti gli sforzi di Federica in questi anni; sono orgogliosa di lei e come mamma sto provando una gioia immensa"

mercoledì 31 ottobre 2012

Campionato mondiale di Biliardo

2013 - Blois (France)
Michele Pace, mazarese per nascita e francese per adozione siè laureato Campione del Mondo alla sponda. A lui vanno i nostri complimenti per il risultato raggiunto e per aver portato in alto anche i nostri colori nazionali

domenica 28 ottobre 2012

Esplosioni sottomarine

Settembre 1979 - Capo Feto
Interessantissima foto inviatami dall'amico prof. Giancarlo Russo, che documenta con un teleobiettivo le esplosioni provocate dalle mine sul fondale di fronte Capo Feto per la posa dei tubi finali del metanodotto proveniente dall'Algeria. La piattaforma a sinistra della colonna d'acqua era alta circa 20 m.!!! Allora si disse che "molto probabilmente" ciò provocò il "terremoto" che si verificò nel giugno dell'81 soltanto a Mazara del Vallo (supposizione non peregrina). Oggi un altro amico mi ha inviato queste nuove testimonianze

Altre mine esplose



Imbarcazioni utilizzate per questa operazione



I sub vanno a controllare che le operazioni sottomarine sono come da copione


Nave più grossa con due gru





Coppie di sposi

Francesca Marinella, Rosario Bonanno 
(nonni materni dei proff. Francesca e Cosimo Gancitano), anni trenta


Maria Antonia Giacalone (ciarantona) - Marco Di Stefano (lu scarparu)


Anna Anteri - Nicolò Sardo


Giovanna Giacalone (ciarantona) - Diego Di Stefano

Nel 1939
Grazia Gancitano - Giovan Battista Quinci (nglisotto, da inglesino)



Gaspare Ingrande - Sarah Vicari


Caterina Giarratano - Antonino Ingrande


Pietro Sorrentino - Antonina Ingrande


Antonina Arbola - Gaspare Tilotta

Caterina Barracco - Antonino Asaro (Lu zu Ninu ciucia chi vola) 

1931 
Francesca Amabile - Pietro Marino 

28/10/1932 - Roma - Viaggio di Nozze (foto Alinari) 
Giovanni Paladino - Anna Maria Lombardo



Francesca Sansone (dei duchi di Torrefranca) - Carlo Ramo 

21/6/1934 - Piazza San Marco

 
Carolina Sansone (dei Duchi di Torrefranca) - Carlo Ramo

1934 - Viaggio di nozze - Roma 
Vito Mauriello e signora 

1939 - Roma (viaggio di nozze)

Salvatore Genna - Maria Monteleone

1940
Maria Norrito - Giuseppe Caito

Mario Certa (avvocato, sindaco di mazara) - Rosaria D'Antoni "L'amore non deve essere servaggio ma liberazione. Esso deve aprirci tutte le finestre alla luce degli orizzonti perchè possiamo vedere la bellezza vera dello infinito e non rinserrarci in un piccolo mondo prigionieri di noi stessi. Il sacrificio è una grande finestra sull'infinito della verità, forse la più ampia e la più bella" (dal romanzo "Milly, fior d'oltremare" di Mario Certa ed. Clartè 1924


1940
Francesca Giacalone (1913-1986) - Calogero (Carlo) Vitale (1908-1989)

1942 
Stella e Pietro Giacalone (Miccu

New York 
Pina Perrone e Nicola Avvocato 

1942 - Sposi (cugini) 
Teresa e Salvatore Diadema 

Francesca Sardo - Emmanuele Di Liberti (1906) 

Francesca Di Liberti - Stefano Cristaldi 

1943 
Maria Foggia . Paolo Tedesco 

1946 
Gaetana Bellitti - Alberto Rizzo 

1948 
Nicasio Messina con fidanzata (futura moglie)

1948 - (Lei in seconde nozze)  
Maria Gallo - Giovanni Caci (1913)


(altra posa)

Caterina Chiofalo - Salvatore Caci

Anna Di Natale - Francesco Asaro (avvocato, ammazzapatri

Leonarda Patti - Leonardo Agate (barbiere)