UN GIORNO COME GLI ALTRI
“Supra di tutti c’è Diu chi sta ncelu,
dopu veni lu re, signuri di la terra.
E dopu li surdati di lu re,
e po’ li cavaddi di li surdati di lu re.
Doppu vennu li viddani, l’aivuli e li fogghi…”.
Canto popolare
(Sopra tutti c’è Dio che sta in cielo,/dopo il re, signore della terra.
E dopo i soldati del re,/e poi i cavalli dei soldati del re.
Infine i contadini, l’alberi e le foglie….)
E i pescatori?
I pescatori, un tempo, non dilapidavano le parole, non partecipavano i loro pensieri, ma con i soli tozzi di pane, senza lamenti e senza pianti, come foglie al vento, vivevano la vita. Ogni mattina, ancor prima che l’aurora mostrasse i suoi colori, dopo avere dedicato una prece al Signore degli umili e dei potenti, durante la messa mattutina, alzavano la vela e lentamente, con il cuore scuro, iniziavano un’altra giornata di passione. Erano giunti a qualche miglio dalla riva di Capo Fedo, i pescatori della paranza a vela, Divina Provvidenza. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Il cielo, anche se incerto e piagnucoloso, non sembrava ostile e i cinque uomini di mare, taciturni e tristi da sempre per esperienze strazianti, erosi dal sole e dalla salsedine, da alcune ore lavoravano rimuovendo dalla rete pesci lucenti. Un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette. Silenzioso per indole, anche il giovane Francesco, di appena diciassette anni, ma già da cinque aveva assaporato le sofferenze di tale mestiere, ripeteva i gesti lavorativi del padre Giovan Battista Trinca, di cinquantaquattro anni, dello zio Giuseppe Trinca, di sessantaquattro anni, dell’amico Pietro Di Maria, di trentasette anni e del di lui figlio, Salvatore, ragazzo di dodici anni, che, da due stava patendo le tribolazioni della vita di mare. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Improvvisamente, in quell’immenso silenzio di mare e di cielo, un lieve rumore. Videro davanti a loro, non molto lontano, vento e acqua alzarsi a vortice, come una montagna, dal mare verso il cielo. Atterriti, rivolsero immantinente il pensiero al protettore San Vito, ma le parole non fecero in tempo ad uscire dalla bocca ché, in un lampo, furono scaraventati, dopo un volo di alcuni metri, nelle fredde acque del mare di marzo. Avvertivano l’acqua salata scendere nella gola, gli occhi spalancati bruciare, il sangue pulsare, le orecchie fischiare, mentre i corpi precipitavano verso il fondo. Strinsero i denti, spinsero con disperazione, con le mani e con i piedi, l’acqua verso il fondo e, mentre i corpi fluivano verso l’alto, intravedevano sopra la luce sempre più vicina. Come il sughero dal fondo del mare, sale impetuoso all’aria e dopo ricade rimanendo a galla, così i pescatori, mentre mostravano i primi segni di asfissia, emersero dall’acqua all’aria bramata e benedetta con la testa, con le spalle e con il tronco. Il padre, Giovan Battista, ancor prima di respirare, emise un grido angoscioso e lungo, Francescoooo, alla ricerca dell’amato figlio, fino a quando non lo vide e non lo sentì tossire con gli occhi rossi e con la bocca aperta. Per un attimo il suo grido si incrociò con quello disperato di Pietro di Maria, Turiii. Si guardò intorno. Erano tutti a galla, Francesco, Giuseppe, Pietro, Salvatore, la barca capovolta, la vela a brandelli, tavole e pezzi di legno sopra il mare quietato. La tromba d’aria aveva bussato ancora per pretendere il suo consueto tributo. Con sforzi sovrumani, i pescatori rovesciarono la barca, la svuotarono dell’acqua come meglio potevano, anche a mani unite, e tentarono di guadagnare la spiaggia a forza di remi. Ma la paranza, non completamente vuota, andava a rilento e le forze dei pescatori erano prossime all'esaurimento. Arrivati a mille metri circa dalla riva, decisero di abbandonare il loro mezzo di lavoro e di sopravvivenza e di proseguire a nuoto. Ma le acque gelide toglievano il fiato e l’energia e, ad un certo momento, le forze vennero meno. Le braccia erano piombo, il petto ghiaccio, il cuore batteva come un orologio, la bocca aperta ed il fiato grosso. Erano ormai immobili i pescatori, come una calamita il fondo del mare li attirava. Si stavano arrendendo al fato, sterminatore degli umili, quando sentirono voci di speranza: “resistete, resistete, stiamo per arrivare”. I finanzieri della casermetta, vicino al mare, già li aiutavano a calpestare la sabbia. Entrarono nel piccolo edificio, umido e scalcinato. L’anziano Trinca, assiderato e stremato, fu aiutato e portato sopra un materasso. Tremavano tutti e si coprivano con coperte di fortuna. Si accostò, Giovan Battista, al fratello maggiore con una coperta per allentare il freddo e il tremore. Ma non tremava più, Giuseppe, non parlava più, aveva lasciato per sempre stenti e sofferenze, aveva trovato, alla fine, la pace tra le braccia capienti del Signore, dopo una vita di lavoro e di muti lamenti. Non piangeva l’uomo di mare davanti alla dipartita del fratello, osservava il vuoto, scrutava il mare pacato, guardava ma non vedeva e non fiatava. Da sempre sapeva che questo lavoro è fame, sudore e lacrime di sangue. Da sempre. Pensava che questo spietato e immutabile destino dei pescatori, ogni giorno in agguato, era, alla fine, arrivato per suo fratello, ma non aveva vinto. Non era stato capace, no, il fato maligno, di tenersi il corpo nel fondo del mare. Qui era, qui, il corpo di suo fratello per potere accogliere il pianto e le grida di dolore della moglie e del figlio. Il figlio Ignazio, trentenne, cieco e paralitico, che poteva solo sentire la voce e la carezza, ma non vedere la mano del padre. Ora nemmeno questo. Che aveva avuto di così tanto nella sua esistenza per patire quest’altra penitenza ? E la moglie Quinci Antonina, di sessantatré anni, come doveva sopravvivere, adesso, negli ultimi suoi anni? Non parlava il figlio Francesco, sfinito, accovacciato in un angolo della stanza, non parlava Pietro Di Maria, rannicchiato, tremante sul pavimento, non parlava Salvatore, in preda ai brividi di freddo, accoccolato accanto al padre. Non parlavano i finanzieri, angosciati da tanta tragedia, non soffiava più il vento, non era più inquieto il mare. Non fu un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette.
I pescatori, un tempo, non dilapidavano le parole, non partecipavano i loro pensieri, ma con i soli tozzi di pane, senza lamenti e senza pianti, come foglie al vento, vivevano la vita. Ogni mattina, ancor prima che l’aurora mostrasse i suoi colori, dopo avere dedicato una prece al Signore degli umili e dei potenti, durante la messa mattutina, alzavano la vela e lentamente, con il cuore scuro, iniziavano un’altra giornata di passione. Erano giunti a qualche miglio dalla riva di Capo Fedo, i pescatori della paranza a vela, Divina Provvidenza. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Il cielo, anche se incerto e piagnucoloso, non sembrava ostile e i cinque uomini di mare, taciturni e tristi da sempre per esperienze strazianti, erosi dal sole e dalla salsedine, da alcune ore lavoravano rimuovendo dalla rete pesci lucenti. Un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette. Silenzioso per indole, anche il giovane Francesco, di appena diciassette anni, ma già da cinque aveva assaporato le sofferenze di tale mestiere, ripeteva i gesti lavorativi del padre Giovan Battista Trinca, di cinquantaquattro anni, dello zio Giuseppe Trinca, di sessantaquattro anni, dell’amico Pietro Di Maria, di trentasette anni e del di lui figlio, Salvatore, ragazzo di dodici anni, che, da due stava patendo le tribolazioni della vita di mare. Un giorno come gli altri, quel giorno.
Improvvisamente, in quell’immenso silenzio di mare e di cielo, un lieve rumore. Videro davanti a loro, non molto lontano, vento e acqua alzarsi a vortice, come una montagna, dal mare verso il cielo. Atterriti, rivolsero immantinente il pensiero al protettore San Vito, ma le parole non fecero in tempo ad uscire dalla bocca ché, in un lampo, furono scaraventati, dopo un volo di alcuni metri, nelle fredde acque del mare di marzo. Avvertivano l’acqua salata scendere nella gola, gli occhi spalancati bruciare, il sangue pulsare, le orecchie fischiare, mentre i corpi precipitavano verso il fondo. Strinsero i denti, spinsero con disperazione, con le mani e con i piedi, l’acqua verso il fondo e, mentre i corpi fluivano verso l’alto, intravedevano sopra la luce sempre più vicina. Come il sughero dal fondo del mare, sale impetuoso all’aria e dopo ricade rimanendo a galla, così i pescatori, mentre mostravano i primi segni di asfissia, emersero dall’acqua all’aria bramata e benedetta con la testa, con le spalle e con il tronco. Il padre, Giovan Battista, ancor prima di respirare, emise un grido angoscioso e lungo, Francescoooo, alla ricerca dell’amato figlio, fino a quando non lo vide e non lo sentì tossire con gli occhi rossi e con la bocca aperta. Per un attimo il suo grido si incrociò con quello disperato di Pietro di Maria, Turiii. Si guardò intorno. Erano tutti a galla, Francesco, Giuseppe, Pietro, Salvatore, la barca capovolta, la vela a brandelli, tavole e pezzi di legno sopra il mare quietato. La tromba d’aria aveva bussato ancora per pretendere il suo consueto tributo. Con sforzi sovrumani, i pescatori rovesciarono la barca, la svuotarono dell’acqua come meglio potevano, anche a mani unite, e tentarono di guadagnare la spiaggia a forza di remi. Ma la paranza, non completamente vuota, andava a rilento e le forze dei pescatori erano prossime all'esaurimento. Arrivati a mille metri circa dalla riva, decisero di abbandonare il loro mezzo di lavoro e di sopravvivenza e di proseguire a nuoto. Ma le acque gelide toglievano il fiato e l’energia e, ad un certo momento, le forze vennero meno. Le braccia erano piombo, il petto ghiaccio, il cuore batteva come un orologio, la bocca aperta ed il fiato grosso. Erano ormai immobili i pescatori, come una calamita il fondo del mare li attirava. Si stavano arrendendo al fato, sterminatore degli umili, quando sentirono voci di speranza: “resistete, resistete, stiamo per arrivare”. I finanzieri della casermetta, vicino al mare, già li aiutavano a calpestare la sabbia. Entrarono nel piccolo edificio, umido e scalcinato. L’anziano Trinca, assiderato e stremato, fu aiutato e portato sopra un materasso. Tremavano tutti e si coprivano con coperte di fortuna. Si accostò, Giovan Battista, al fratello maggiore con una coperta per allentare il freddo e il tremore. Ma non tremava più, Giuseppe, non parlava più, aveva lasciato per sempre stenti e sofferenze, aveva trovato, alla fine, la pace tra le braccia capienti del Signore, dopo una vita di lavoro e di muti lamenti. Non piangeva l’uomo di mare davanti alla dipartita del fratello, osservava il vuoto, scrutava il mare pacato, guardava ma non vedeva e non fiatava. Da sempre sapeva che questo lavoro è fame, sudore e lacrime di sangue. Da sempre. Pensava che questo spietato e immutabile destino dei pescatori, ogni giorno in agguato, era, alla fine, arrivato per suo fratello, ma non aveva vinto. Non era stato capace, no, il fato maligno, di tenersi il corpo nel fondo del mare. Qui era, qui, il corpo di suo fratello per potere accogliere il pianto e le grida di dolore della moglie e del figlio. Il figlio Ignazio, trentenne, cieco e paralitico, che poteva solo sentire la voce e la carezza, ma non vedere la mano del padre. Ora nemmeno questo. Che aveva avuto di così tanto nella sua esistenza per patire quest’altra penitenza ? E la moglie Quinci Antonina, di sessantatré anni, come doveva sopravvivere, adesso, negli ultimi suoi anni? Non parlava il figlio Francesco, sfinito, accovacciato in un angolo della stanza, non parlava Pietro Di Maria, rannicchiato, tremante sul pavimento, non parlava Salvatore, in preda ai brividi di freddo, accoccolato accanto al padre. Non parlavano i finanzieri, angosciati da tanta tragedia, non soffiava più il vento, non era più inquieto il mare. Non fu un giorno come gli altri, quel giorno del sei di marzo del milleottocentonovantasette.
(Enzo Gancitano)
VOCI DAL FIUME
“Tri la vittiru l’aliata fina / nivura all’ali l’aliata fina,
lassari Mazara e la marina / Unu arricchì, unu invicchì
lu terzu murì e mancu vulìa / prima di riri beddra Maria”.
Canto popolare mazarese
In un tempo non lontano, in un tempo chiaro della memoria che vive, in un tempo della giovinezza che corre, che fugge lasciando scolpiti ricordi vividi ed immagini splendenti, quando l’aurora stenta ad aprire la strada al nuovo giorno, i lampioni elargivano una timida, sommessa luce per vincere la residua oscurità e il silenzio gratificava l’ultimo tozzo di sonno. In quel rione, nei pressi del fiume, ad ogni albeggiare, irrompevano le voci argentine dei mozzi, ragazzini insonnoliti, ad invitare alla sveglia i componenti degli equipaggi per una nuova battuta di pesca con la cantilena monotona ed assimilata. Paese di mare, paese di fiume, paese di gabbiani, abituali sorveglianti del tempo, delle acque fluviali e delle acque del mare.
Le due rive del Mazaro, con il vecchio ponte, erano zone di frequentazione quotidiana per coloro che lì erano nati e che lì risiedevano, a due passi dal fiume. Incontrare pescatori, dai visi precocemente invecchiati per l'azione assidua del sole, della salsedine o per le inquietudini e i pensieri imprigionati, era ovvio, naturale, come respirare, inconsapevolmente, l’aria che sapeva di mare. Questi luoghi appartengono alla fanciullezza e, adesso, ai ricordi di coloro che accolsero il sole, la pioggia, l’odore del mosto, il sopore del fiume dormiente e il rumore della sua rabbia antica, le voci di tutto quello che qui si muoveva e viveva: i pescherecci, i magazzini del pesce, le fabbriche di ghiaccio, i pescatori con la loro religione del silenzio in casa e fuori, anche i saluti, prevalentemente accennati, l’odore della nafta, il ghiaccio caduto per le strade, l’odore dell’acqua stagnante, la visione di anziani, a piedi nudi, immersi nel fango nero, sotto il ponte, per la raccolta della “trimulina”; i ragazzi, dall’aspetto di scugnizzi, raccogliere vongole, il fenomeno del marrobio con le acque del fiume che inondavano le banchine e le campagne circostanti, lasciando pesci storditi accanto alle viti. E voci di fanciulli alla ricerca di granchi lungo il molo, di giovinetti temerari ed imprudenti che si libravano dalla sommità dell’arcata del ponte verso l’accogliente fiume, il rumore dei motori dei natanti e delle officine meccaniche, il lento fluire della chiatta che collegava le due sponde del Mazaro, di fronte al mercato-pesce dal quale rimbombavano le voci degli astatori, il suono crescente della sirena a segnalare l’apertura del mercato pesce nelle ore pomeridiane, il sole estivo che induriva ed anneriva la pelle, e gli odori e i tanfi che, ancora, si conservano nella mucosa delle narici. E dalle bitte, lungo il fiume, nei diversi punti, i rumori della battitura della ddisa (ampelodesmos) con martelli in legno, ad opera di anziani nassaroli, che avevano lasciato, ma non dimenticato, le sofferenze e i colori del mare e del cielo e che pativano, adesso, il malessere dell’astinenza. E il paesaggio delle dimore con i tetti di tegole d’argilla e con “l’astraco” (terrazzo) con la madia colma dell’estratto di salsa o di pomidori e fichi spalancati ad essiccare al sole dell’estate, accoglieva il martellio caratteristico, nei cantieri navali, del lavoro di calafataggio dei carpentieri che, con scalpello e mazzuolo, introducevano la stoppa (canapa) nelle connessure delle tavole in legno dello scafo, seguito dall’immissione della pece calda, con il suo odore peculiare, per renderle impermeabili all’acqua. Suoni non assordanti, suoni non insopportabili, suoni divenuti elementi ripetitivi, essenziali per il corpo e per l’anima. A distanza di tanti anni, talora, i prigionieri delle memorie non possono fare a meno di concretizzare le vecchie immagini, con malinconiche escursioni solitarie nei percorsi abituali dell’infanzia, lungo il fiume, lungo stradine, quasi senza vita, senza bambini, senza voci, senza i lampioni dalla luce fievole, fissati alle pareti delle abitazioni, senza i passi pesanti dei pescatori di un tempo. Solo fantasmi del passato con i muri dilaniati dal tempo e dalle intemperie, solo quiete dell’abbandono corrotta da voci arabe, riappropriatesi della città antica, a pochi metri dalle case della spensieratezza. Un tempo, solo ieri nelle ideazioni mentali, ad ogni edificio volti familiari, visi di rughe e salsedine, con la storia scritta sulla pelle e sui muri, gioie e drammi, naufragi con la fine della voce, eccezionalmente effusa. Quando le acque gelide del mare s’impadronivano dell’alito vitale di alcuni compagni dell’infanzia, i ragazzi, taciturni, affollavano le dimore del pianto e del dolore, dove le madri levavano nell’aria dell’angusto ambiente familiare quel dolore che non riuscivano a tenere dentro. Gemiti necessari, indispensabili, come acqua sul fuoco dell’anima. Mani, occhi, parole ora sussurrate, ora sgolate, proiettati verso il cielo, verso il Dio degli umili, verso il Dio degli oppressi, verso il Dio dei dimenticati, verso il Dio dei morti annegati :”Padre, nostro rifugio e nostra consolazione, perché ci hai abbandonato?”. Non riuscivano ad imprecare le donne, urlavano la delusione della protezione mancata. Gli uomini, in un angolo umido della dimora, ostentavano la consueta maschera del silenzio. I volti, sofferti, travagliati, pallidi, gli occhi sperduti, profondi, colmi del dolore che fuoriusciva dal cuore, riparo di quelle parole gravose che la bocca non sapeva emettere, che la mente rifiutava di conservare; quegli occhi ripieni, traboccanti del mare impetuoso, del sale che brucia, dell’orrido lamento del vento, dell’immagine nelle acque tempestose di una mano che, invano, implorava aiuto, mentre sprofondava, fissavano il nulla, tendevano nella direzione di una voce di cordoglio, ma le labbra serbavano l’immobilità. Solo l’automatismo degli arti consentiva loro di stringere mani di conforto in silenzio.
In quel quartiere, come negli altri sorvolati dagli uccelli di mare, il dolore era da sopportare, da soffocare, le parole erano da imbavagliare, le lacrime che, da tempo avevano smarrito la strada della luce, erano da frenare, da deglutire, l’acre sudore quotidiano da accettare. In quel rione dell’umiltà, dove l’imprecazione contro il fato era dimenticata e l’esecrazione infieriva solo contro la miseria ed il sorriso era solo un accenno e la religione era necessità per l’oblio delle pene e l’affetto era solo nelle carezze di mani ruvide e callose, non nelle parole bloccate, e nel contatto negato delle labbra, e lo sguardo lontano era intento ad occultare paure e il pianto era solo goccia di mare essiccata, la sera dopo la frugale cena, quando la calura asfissiante dell’estate cedeva al respiro possibile, le donne del martirio casalingo portavano le sedie sulla strada, davanti alla porta di casa, per beneficiare della fine del lavoro. Ma gli uomini no. Sul giaciglio adagiavano il corpo fiaccato per affrontare all’alba un’altra battaglia. Gli uomini di mare…. gli uomini di mare…I pittori, con i loro colori ricercati negli impasti cromatici, hanno mai privilegiato i volti della gente di mare, come Van Gogh fa con i contadini, con i mangiatori di patate, con gli umili dalla vita colma di pene e dolori, come Monet esegue con le barchette? Pescatori, con le rughe sul contorno degli occhi, con gli sguardi scuri, immensi e tristi, con la lingua, forse atrofica, per i movimenti mancati e per le parole non profferite. Hanno mai scoperto con le tonalità dei colori, cosa sono conservate nelle rughe precoci? Sole, sale, gelo, paura, sudore? Hanno mai scoperto cosa nascondono la profondità e la tristezza degli occhi? Timore, uragano, montagne d’acqua, lamento del vento, il grido agghiacciante dei pescatori rapiti dagli abissi marini, la voce del fato, la morte? Hanno mai scoperto il mistero di quelle labbra? Cosa hanno mai pronunciato a parte le invocazioni nel pericolo in mare : Dio mio, Dio degli umili, Santu Vituzzu a te affido la mia vita martoriata? Hanno mai aperto, guardato, letto, toccato quelle mani rugose e hanno mai scoperto l’enigma della loro durezza e del loro contenuto? Lavoro, sudore, il gelo del trapasso della speranza, qualche rara tenera carezza ai figli che la lingua non sapeva elargire a voce ? Gente di mare, gente dalla vita sospesa tra un alito di vento, un refolo di salsedine, uno sguardo di sollievo agli affetti, il timore di una tormenta in agguato ed una pallida e dubbiosa speme in un nuovo albeggiare. Con l’atroce, eterno fato degli umili, con l’incedere pensoso, con il pianto senza lacrime, con l’antico crepuscolo delle illusioni. Voci del fiume. Voci approdate nel fondo del mare, nella terra dei cipressi, in terre lontane dalla lingua che tradisce, nelle rughe della vecchiezza, nella prigione della solitudine, nel dolore della memoria, nel rimpianto dei tempi uccisi. (Enzo Gancitano)
Le due rive del Mazaro, con il vecchio ponte, erano zone di frequentazione quotidiana per coloro che lì erano nati e che lì risiedevano, a due passi dal fiume. Incontrare pescatori, dai visi precocemente invecchiati per l'azione assidua del sole, della salsedine o per le inquietudini e i pensieri imprigionati, era ovvio, naturale, come respirare, inconsapevolmente, l’aria che sapeva di mare. Questi luoghi appartengono alla fanciullezza e, adesso, ai ricordi di coloro che accolsero il sole, la pioggia, l’odore del mosto, il sopore del fiume dormiente e il rumore della sua rabbia antica, le voci di tutto quello che qui si muoveva e viveva: i pescherecci, i magazzini del pesce, le fabbriche di ghiaccio, i pescatori con la loro religione del silenzio in casa e fuori, anche i saluti, prevalentemente accennati, l’odore della nafta, il ghiaccio caduto per le strade, l’odore dell’acqua stagnante, la visione di anziani, a piedi nudi, immersi nel fango nero, sotto il ponte, per la raccolta della “trimulina”; i ragazzi, dall’aspetto di scugnizzi, raccogliere vongole, il fenomeno del marrobio con le acque del fiume che inondavano le banchine e le campagne circostanti, lasciando pesci storditi accanto alle viti. E voci di fanciulli alla ricerca di granchi lungo il molo, di giovinetti temerari ed imprudenti che si libravano dalla sommità dell’arcata del ponte verso l’accogliente fiume, il rumore dei motori dei natanti e delle officine meccaniche, il lento fluire della chiatta che collegava le due sponde del Mazaro, di fronte al mercato-pesce dal quale rimbombavano le voci degli astatori, il suono crescente della sirena a segnalare l’apertura del mercato pesce nelle ore pomeridiane, il sole estivo che induriva ed anneriva la pelle, e gli odori e i tanfi che, ancora, si conservano nella mucosa delle narici. E dalle bitte, lungo il fiume, nei diversi punti, i rumori della battitura della ddisa (ampelodesmos) con martelli in legno, ad opera di anziani nassaroli, che avevano lasciato, ma non dimenticato, le sofferenze e i colori del mare e del cielo e che pativano, adesso, il malessere dell’astinenza. E il paesaggio delle dimore con i tetti di tegole d’argilla e con “l’astraco” (terrazzo) con la madia colma dell’estratto di salsa o di pomidori e fichi spalancati ad essiccare al sole dell’estate, accoglieva il martellio caratteristico, nei cantieri navali, del lavoro di calafataggio dei carpentieri che, con scalpello e mazzuolo, introducevano la stoppa (canapa) nelle connessure delle tavole in legno dello scafo, seguito dall’immissione della pece calda, con il suo odore peculiare, per renderle impermeabili all’acqua. Suoni non assordanti, suoni non insopportabili, suoni divenuti elementi ripetitivi, essenziali per il corpo e per l’anima. A distanza di tanti anni, talora, i prigionieri delle memorie non possono fare a meno di concretizzare le vecchie immagini, con malinconiche escursioni solitarie nei percorsi abituali dell’infanzia, lungo il fiume, lungo stradine, quasi senza vita, senza bambini, senza voci, senza i lampioni dalla luce fievole, fissati alle pareti delle abitazioni, senza i passi pesanti dei pescatori di un tempo. Solo fantasmi del passato con i muri dilaniati dal tempo e dalle intemperie, solo quiete dell’abbandono corrotta da voci arabe, riappropriatesi della città antica, a pochi metri dalle case della spensieratezza. Un tempo, solo ieri nelle ideazioni mentali, ad ogni edificio volti familiari, visi di rughe e salsedine, con la storia scritta sulla pelle e sui muri, gioie e drammi, naufragi con la fine della voce, eccezionalmente effusa. Quando le acque gelide del mare s’impadronivano dell’alito vitale di alcuni compagni dell’infanzia, i ragazzi, taciturni, affollavano le dimore del pianto e del dolore, dove le madri levavano nell’aria dell’angusto ambiente familiare quel dolore che non riuscivano a tenere dentro. Gemiti necessari, indispensabili, come acqua sul fuoco dell’anima. Mani, occhi, parole ora sussurrate, ora sgolate, proiettati verso il cielo, verso il Dio degli umili, verso il Dio degli oppressi, verso il Dio dei dimenticati, verso il Dio dei morti annegati :”Padre, nostro rifugio e nostra consolazione, perché ci hai abbandonato?”. Non riuscivano ad imprecare le donne, urlavano la delusione della protezione mancata. Gli uomini, in un angolo umido della dimora, ostentavano la consueta maschera del silenzio. I volti, sofferti, travagliati, pallidi, gli occhi sperduti, profondi, colmi del dolore che fuoriusciva dal cuore, riparo di quelle parole gravose che la bocca non sapeva emettere, che la mente rifiutava di conservare; quegli occhi ripieni, traboccanti del mare impetuoso, del sale che brucia, dell’orrido lamento del vento, dell’immagine nelle acque tempestose di una mano che, invano, implorava aiuto, mentre sprofondava, fissavano il nulla, tendevano nella direzione di una voce di cordoglio, ma le labbra serbavano l’immobilità. Solo l’automatismo degli arti consentiva loro di stringere mani di conforto in silenzio.
In quel quartiere, come negli altri sorvolati dagli uccelli di mare, il dolore era da sopportare, da soffocare, le parole erano da imbavagliare, le lacrime che, da tempo avevano smarrito la strada della luce, erano da frenare, da deglutire, l’acre sudore quotidiano da accettare. In quel rione dell’umiltà, dove l’imprecazione contro il fato era dimenticata e l’esecrazione infieriva solo contro la miseria ed il sorriso era solo un accenno e la religione era necessità per l’oblio delle pene e l’affetto era solo nelle carezze di mani ruvide e callose, non nelle parole bloccate, e nel contatto negato delle labbra, e lo sguardo lontano era intento ad occultare paure e il pianto era solo goccia di mare essiccata, la sera dopo la frugale cena, quando la calura asfissiante dell’estate cedeva al respiro possibile, le donne del martirio casalingo portavano le sedie sulla strada, davanti alla porta di casa, per beneficiare della fine del lavoro. Ma gli uomini no. Sul giaciglio adagiavano il corpo fiaccato per affrontare all’alba un’altra battaglia. Gli uomini di mare…. gli uomini di mare…I pittori, con i loro colori ricercati negli impasti cromatici, hanno mai privilegiato i volti della gente di mare, come Van Gogh fa con i contadini, con i mangiatori di patate, con gli umili dalla vita colma di pene e dolori, come Monet esegue con le barchette? Pescatori, con le rughe sul contorno degli occhi, con gli sguardi scuri, immensi e tristi, con la lingua, forse atrofica, per i movimenti mancati e per le parole non profferite. Hanno mai scoperto con le tonalità dei colori, cosa sono conservate nelle rughe precoci? Sole, sale, gelo, paura, sudore? Hanno mai scoperto cosa nascondono la profondità e la tristezza degli occhi? Timore, uragano, montagne d’acqua, lamento del vento, il grido agghiacciante dei pescatori rapiti dagli abissi marini, la voce del fato, la morte? Hanno mai scoperto il mistero di quelle labbra? Cosa hanno mai pronunciato a parte le invocazioni nel pericolo in mare : Dio mio, Dio degli umili, Santu Vituzzu a te affido la mia vita martoriata? Hanno mai aperto, guardato, letto, toccato quelle mani rugose e hanno mai scoperto l’enigma della loro durezza e del loro contenuto? Lavoro, sudore, il gelo del trapasso della speranza, qualche rara tenera carezza ai figli che la lingua non sapeva elargire a voce ? Gente di mare, gente dalla vita sospesa tra un alito di vento, un refolo di salsedine, uno sguardo di sollievo agli affetti, il timore di una tormenta in agguato ed una pallida e dubbiosa speme in un nuovo albeggiare. Con l’atroce, eterno fato degli umili, con l’incedere pensoso, con il pianto senza lacrime, con l’antico crepuscolo delle illusioni. Voci del fiume. Voci approdate nel fondo del mare, nella terra dei cipressi, in terre lontane dalla lingua che tradisce, nelle rughe della vecchiezza, nella prigione della solitudine, nel dolore della memoria, nel rimpianto dei tempi uccisi. (Enzo Gancitano)
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