sabato 16 gennaio 2016

Il castello normanno (di Rosario Lentini)

Mazara 1811: quando il castello contava meno del grano

Disegno di Gabriele Merelli, 1677

Il castello medievale di Mazara o meglio ciò che un tempo fu castello, da molti decenni ci si mostra in quell’unico frammento architettonico superstite – un arco a tutto sesto sormontato da un doppio arco ogivale – ormai divenuto icona della città, ben più del suo stemma turrito. Come noto, la costruzione risale al 1075 circa, per volontà di Ruggero I di Altavilla, in posizione soprelevata rispetto all’attuale piano della piazza Mokarta, strategicamente funzionale alla rete di difesa dalle possibili incursioni musulmane lungo la linea di costa meridionale dell’Isola. Ospitò non soltanto il conte Ruggero e l’omonimo re ma anche Federico di Aragona e la regina Eleonora d’Angiò nel 1318 e poi Pietro di Aragona, re Martino e, in ultimo, re Alfonso di Napoli nel 1495. Intorno al 1880, ridotto in condizioni di notevole degrado, fu presa la decisione di demolirlo quasi per intero, per realizzare nello stesso luogo una villa urbana, malgrado – come sottolineava Filippo Napoli [1] – il contrario parere di alcuni archeologi.
A onor del vero, nella seconda metà dell’800, l’orientamento urbanistico di demolire mura per ammodernare le città era molto diffuso in tutto il Paese, da Torino a Palermo, e ad esso si devono gli abbattimenti di cinte murarie per realizzare viali e gli sventramenti dei centri storici per sostituirvi edifici più ariosi. E poiché l’arte del riuso era la norma, le pietre del castello mazarese diruto servirono per il lungomare e per la piazza. Ancora nel 1901, i fogli a stampa dell’opposizione politica locale preannunciavano: «[…] fra pochi giorni anche tu cadrai, o glorioso avanzo di Porta Castello, vetusto documento della dominazione arabo-normanna! E cadrai per l’azione d’un sindaco ostrogoto… Si fa voti all’illustre comm. Patricola, direttore degli scavi e monumenti, perché non permetta che si consumi tale vandalismo» [2].
Ma il degrado era già iniziato molto tempo prima; non a caso, infatti, il 23 dicembre 1793 il comandante della fortificazione mazarese, don Nicolò Velasco, scriveva al ministro della guerra in Napoli, don Salvadore Naselli, per segnalare lo «stato così deplorabile» sia del forte, sia delle vicine abitazioni in cui erano alloggiate le truppe [3]. La sua sorte appariva segnata, nonostante il Canale di Sicilia rimanesse un mare affatto tranquillo; le incursioni piratesche e le catture di bastimenti proseguivano senza sosta e avrebbero meritato un incremento maggiore delle spese per le architetture militari. Tuttavia, il versante tirrenico e quello orientale della Sicilia, almeno fino al 1815, erano considerati anello ancor più debole della catena difensiva, dato che l’espansionismo napoleonico aveva costretto re Ferdinando III a fuggire dalla capitale partenopea occupata dall’esercito francese e a rifugiarsi nel regno di Sicilia. Tra XVIII e XIX secolo, dunque, si riteneva maggiore il pericolo proveniente dalla Penisola italiana e poiché dal 1800 l’Isola di Malta era protettorato della Gran Bretagna, nazione alleata del Borbone, il rischio di uno sbarco di truppe francesi lungo la costa meridionale dell’Isola appariva assai improbabile. FOTO1

Il Castello di Mazara, da F. Negro e C. M. Ventimiglia, Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia, 1640, a cura di Nicolò Aricò, Sicania, Messina 1992

Peraltro, le periodiche richieste alle autorità e istituzioni centrali di interventi restaurativi importanti da attuare non trovavano più adeguato riscontro anche per un altro motivo: Mazara era città demaniale e quindi anch’essa avrebbe dovuto contribuire alle spese e in che misura ce lo ricorda, nel 1811, proprio uno dei suoi governatori, don Michele Burgio Marini: «Il castello di Mazzara necessita di accomodi urgenti. Per l’accomodo di questo castello va tenuta l’Università [cioè la città] in forza di replicati Reali Dispacci. Le muraglie necessitano pure di pronti accomodi» [4]. Tra gli obblighi di bilancio che ripetutamente il re ricordava agli amministratori cittadini vi era quello di destinare annualmente 50 onze solo per il restauro delle mura, importo questo che da tempo non veniva erogato. Inoltre, per il cosiddetto quartiere di Cavalleria, cioè per gli attigui alloggiamenti militari, l’amministrazione comunale aveva imposto apposita gabella sul macino che permetteva di accantonare la non indifferente somma di circa 600 onze l’anno da utilizzare per «riattazione e mantenimento»; poiché però «per tanti anni non si sono erogate, aumenta una somma eccessiva di debito dell’Università».
Don Burgio Marini, consapevole delle difficoltà finanziarie e del fatto che da un’eventuale vendita del quartiere militare si sarebbero ricavate 1.000 onze mentre, di contro, per il restauro ne sarebbero occorse non meno di 4.000, optando per la prima soluzione «propose di serrarsi una strada piena di magazzini che contiene due grandi Conventi in quella lunghezza, che sarebbe necessaria alla quantità delle Truppe, e ciò con poca spesa» [5]. La proposta non sembra abbia ottenuto riscontro positivo, di certo non si concretizzò; eppure, in quel 1811, il problema assumeva una rilevanza tale che, quando in città venne a soggiornare per diversi giorni il funzionario regio don Tommaso de Pasquale, il governatore ritenne di trovarsi al cospetto dell’interlocutore designato a valutare gli interventi necessari.

da F. Negro e C. M. Ventimiglia,Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia, 1640, a cura di Nicolò Aricò, Sicania, Messina 1992
Ma il de Pasquale, che aveva avuto, invece, l’incarico di relazionare sull’andamento della raccolta dei frumenti nel Val di Mazara, preferì mantenere segreta la propria missione e assecondare il convincimento del Burgio Marini il quale: «voleva sapere qual era la mia professione, ed avendo saputo essere architetto, credé che fusse stato commissionato per la fortificazione, cosa che mi fu di sommo piacere per non fare scuoprire la vera e con tale occasione mi fece girare il Castello, quartiere dirotto e le mura che circondano detta Città; nel medesimo giro delle Mura – riferiva ancora il de Pasquale – mi dimostrò la maniera de’ controbandi e come non se li poteva opporre perché gli veniva impedita la sortita in tempo di notte perché le chiavi erano in potere del Senato» [6]. In buona sostanza, dalla “narrazione” del governatore mazarese l’immagine degli amministratori civici e del senato ne usciva a pezzi: non solo erano inadempienti nel finanziare il restauro del castello e delle mura, ma erano persino sospetti di agevolare il contrabbando! La questione cominciava a prendere una piega diversa e di maggior interesse per il funzionario regio, il quale stava compilando un “Notamento de’ Paesi tragittati per la Valle di Mazzara”, cioè una relazione sull’andamento della produzione e del commercio dei grani relativa a 36 comuni, da Godrano ad Agrigento, da Aragona ad Alcamo, da Sambuca a Ribera ecc. e, non a caso, il commento e le informazioni riguardanti Mazara risultavano le più puntuali dell’intero rapporto. Si rileva, intanto, come la resa granaria fosse stata tra le più basse: tre tumoli per ogni tumulo di sementi (a Godrano, per esempio, si erano ottenute rese non inferiori a nove tumoli con punte di sedici) e «solo il Feudo della Piana è giunto fino al sette, e varj Feudi non hanno raggiunto nemmeno la Semenza»; il prezzo corrente si attestava sui 14 tarì e grani 10 il tumulo.
Una pessima annata, quindi, per Mazara, città che anche uno straniero come l’ufficiale della Marina militare britannica William Henry Smyth ben conosceva e riguardo alla quale, in quegli stessi anni, annotava: «si fa grande esportazione di grano, cotone, legumi, vino, frutta, pesce, barilla (termine di origine spagnola per indicare le ceneri di soda vegetale), radici di robbia, olio e sapone, ma durante l’inverno si sente molto la mancanza d’un porto per grandi vascelli» [7]. Quasi certamente allo Smyth queste informazioni vennero fornite dal mercante connazionale Joseph Payne stabilitosi a Mazara sin dalla fine del ‘700 –prima ancora di Matthew Clarkson e di James Hopps – il quale esportava lino, mandorle, olio e vino, nonché il frumento acquistato dal conte di Gazzera [8] e le ceneri di soda da mastro Gaspare Dado [9] e che nel 1819 avrebbe preso in affitto anche un vasto terreno di proprietà della mensa vescovile [10].


Disegno di Gelino, 1802

Tuttavia, per quanto personaggio di spicco, Payne non era il più importante incettatore di frumenti della piazza, mentre il de Pasquale aveva ben rilevato, nel corso della sua indagine, la ristretta cerchia dei maggiori mercanti e produttori: il napoletano don Luigi Cacace che intermediava anche per conto degli inglesi; i mazaresi don Gaetano d’Andrea, il canonico Russo «gran formentario», il gabelloto e negoziante don Antonino Lorrito (Norrito), il padrone di barca Caspro (Gaspare) Baro e, non ultimi, i fratelli Vito e Leonardo Felleccia (Fileccia). I Fileccia e il Norrito in seguito si sarebbero anche associati tra loro come si evince dai Ruoli fondiari degli anni 1824-29 [11]. Secondo il funzionario de Pasquale, i Fileccia corrispondevano con il mercato palermitano grazie ad un loro fratello sacerdote, il beneficiale don Pietro Fileccia. Sono documentati, infatti, ripetuti trasferimenti di somme da Mazara a Palermo sin dal 1803 (da don Vito al citato fratello sacerdote), contabilizzate a debito dei fratelli Woodhouse di Marsala, forse per acquisti sul mercato della capitale siciliana [12]. Si ha notizia per quegli anni anche di un altro reverendo Vito Fileccia mazarese, (probabilmente cugino dell’omonimo produttore-mercante) facente parte della deputazione dei cinque sacerdoti nominati dal vescovo La Torre per preservare il culto della Madonna del Paradiso, le offerte elargite dai fedeli e gli ex voto [13]. «La popolazione patisce, e si lagna – scriveva ancora il funzionario de Pasquale – per esservi molti Negozianti tutt’inclinati a far uscire il formento di controbando nulla curando la sudetta popolazione» [14].

Il castello, primi 900
Niente di nuovo sotto il sole di Mazara. Nel 1785 il sindaco Francesco Sansone Eredia aveva scritto al viceré Caracciolo, in quell’anno anch’esso di scarso raccolto, per segnalare le difficoltà a farsi consegnare «da Massarioti e Borgesi» la quota di frumento prodotta nel territorio (un terzo) «per la necessaria provisione di questo Publico, […] dapoiché per esperienza si è veduto che li Riveli sono stati sempre lesivi a questo Publico, per essersi fatti sempre su d’un piede basso e non dell’effettiva quantità che hanno raccolto» [15]. I produttori, cioè, dichiaravano ufficialmente quantità inferiori di cereali per non essere costretti a versare nei magazzini comunali la quota dovuta nelle annate di carestia ed anzi esportavano di contrabbando il prodotto non rivelato conseguendo più lauti profitti. Secondo il marchese de Gregorio inviato dalla Giunta delle dogane di Sicilia nella primavera del 1803 «per sistemare la Dogana della città di Mazara», le persone del luogo da lui stesso individuate ad assumere gli incarichi erano «adorne d’ogni probità e saggezza» e tra queste vi erano don Vito Fileccia (Regio revisore percontra) e don Antonino Norrito (Fiscale) [16]. Anche in quel tempo poteva accadere che i controllori dovessero controllare se stessi e spesso con risultati ineccepibili, ma nei fatti sul commercio dei cereali si continuava a frodare il fisco e piegare il fabbisogno della città.
Chissà se tra i motivi della mozione degli occhi del ritratto della Madonna del Paradiso, la sera del 3 novembre 1797 – evento miracoloso ripetutosi nel 1807, 1810 e 1811 – non vi fosse anche la commiserazione verso la popolazione affamata dai suoi contrabbandieri!
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

Note
[1] F. Napoli, Storia della città di Mazara, Mazara del Vallo 1932: 52.
[2] «Gazzettino del Popolo», Mazara del Vallo, 28-10-1901, cfr. A. Cusumano, Da «Il Giardino letterario» ad «Astarotte. La stampa periodica locale», in A. Cusumano – R. Lentini, Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma, Palermo 2004: 174.
[3] Archivio di Stato di Palermo (Asp), Tribunale del Real Patrimonio. Numerazione provvisoria, reg. 2339, doc. 25, lettera del viceré Caramanico al Tribunale del Real Patrimonio, Palermo, 13 marzo 1794.
[4] Asp, Real Segreteria. Incartamenti, b. 5402, trascrizione della Memoria di don Michele Burgio Marini, databile agosto 1811.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, lettera di don Tommaso de Pasquale al duca di Ascoli, databile agosto 1811.
[7] W. H. Smyth, La Sicilia e le sue Isole, a cura di Salvatore Mazzarella, Giada, Palermo 1989: 26.
[8] Archivio di Stato di Trapani, not. V. Barracco di Mazara del Vallo, reg. 5286, cc. 17r-18r, 29-4-1812.
[9] Ibidem, reg. 5287, cc. 135r-136r, 8-12-13.
[10] Archivio Notarile Mandamentale di Marsala, not. P. Pace di Marsala, reg. non numerato, cc. 445r-459v, 24-8-1819.
[11] Asp, Ruoli fondiari, 1824-1829, busta 29, registro “Mazara”.
[12] Asp, not. F.M. Albertini, reg, 23946, c. 133r, 10-9-1804; c. 445r, 1-10-1804. Si tratta di alcune lettere di cambio emesse a Mazara da Domenico Lombardo «per la valuta avuta in contanti dal sig. Vito Fileccia», regolarmente pagate al rev. Pietro Filecciasulla piazza di Palermo dal trattario banchiere Abraham Gibbs, fiduciario dei Woodhouse.
[13] P. Pisciotta, La Madonna del Paradiso. Due secoli di culto mariano nella città di Mazara del Vallo, Istituto per la storia della Chiesa, Mazara del Vallo 1999: 33.
[14] Asp, Real Segreteria. Incartamenti, lettera di don Tommaso de Pasquale cit.
[15] Asp, Tribunale del Real Patrimonio. Numerazione provvisoria, reg. 218, lettera del sindaco di Mazara al viceré Caracciolo, 6-6-1785.
[16] Asp, Suprema Giunta delle Dogane, busta 8, fasc. 12, lettera del marchese Gregorio al viceré Asmundo Paternò, Trapani, 24-5-1803.

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