lunedì 18 gennaio 2016

I toponimi e la memoria dei luoghi. Di tonnare e di altro

di Rosario Lentini
Tiburzio Spannocchi, Disegno acquerellato della linea di costa di Mazara (1577-80)

La memoria dei luoghi è prevalentemente affidata alla ricostruzione storica, alla narrazione scritta o semplicemente orale, tramandata di generazione in generazione, di avvenimenti e personaggi; all’esistenza di antiche preesistenze architettoniche, di scavi archeologici, di ritrovamenti paleontologici, di graffiti alle pareti di grotte un tempo abitate; ma anche al verificarsi di eventi naturali o di mutazioniambientali di cui il soggetto umano è stato solo attore passivo. In ogni caso non sempre è facile risalire alla genesi dei toponimi, cioè al processo “creativo” di denominazione dei luoghi.
«Un luogo di memoria – scrivono Fabietti e Matera – può essere reale, in quanto è effettivamente in quel punto preciso dello spazio che si è prodotto un evento assunto dalla memoria come significativo, quale una battaglia, il martirio di un eroe, un miracolo compiuto da un santo… Ma un luogo di memoria può anche essere il prodotto di una attività immaginativa, una “invenzione” del pensiero collettivo» [1]. Le raccolte cartografiche – in particolare quelle a cura degli architetti militari – dalle antiche fino alle più recenti, mostrano quanto sia labile e volatile la memoria dei luoghi e basti mettere insieme tutte le indicazioni che si possono trarre dai documenti di archivio, dai testi a stampa di storiografi e viaggiatori del passato, per rimanere sorpresi dalla varietà di toponimi accantonati e sepolti dall’uomo, dal tempo o da entrambi.
Voglio qui proporre un esempio concreto, proprio per illustrarne la ricchezza e stratificazione di denominazioni, percorrendo idealmente la linea di costa mazarese, da ovest verso est, fino a Tre Fontane, sconfinando, quindi, in territorio di Campobello. L’esame dei manoscritti e delle tavole acquerellate di due grandi ingegneri militari di età moderna, Tiburzio Spannocchi (datazione attribuita alla sua opera 1577-80) e Camillo Camiliani (fine Cinquecento, primi anni del Seicento), ampiamente noti e studiati e qui di seguito citati per comodità con le iniziali S. e C., rappresentano il punto di partenza quasi obbligato [2].
Il nostro itinerario inizia dal confine occidentale con il territorio di Petrosemolo costituito da Bizanti et la Chenisia (S.) cioè Punta Chinisia (C.) cui si sovrappone posteriormenteTorrazza ossia Torre del Buscione [3]. In verità, della torre in questione, ignorata dalla maggior parte degli autori, non è mai stata rinvenuta traccia fisica, pur se è molto probabile che ve ne fosse una di pertinenza dell’Episcopato. Alcuni autori hanno ritenuto fosse collocata a Capo Feto, assimilando, però, erroneamente questo toponimo con la Chinisia – quasi fosse la variante nominalistica dello stesso luogo – che invece distava, secondo le misurazioni risalenti alla prima metà dell’Ottocento dell’idrografo Francesco Arancio, circa 4 miglia (poco meno di 6 chilometri) da Capo Feto.
Da questo confine della Chinisia in direzione della città e prima di Capo Feto, S. rileva soltanto la Cala di Sei danari; C. aggiunge la Cala della Triglia; Filippo Geraci, nel suo portolano seicentesco, Punta di la Matica [4], il Massa la Spiaggia della Mortella [5] e, infine, Arancio segnala uno Scalo di Vaccarella. Superato Capo Feto, si trovava la Vigna del re, ma non lungo la costa, «lontano di marina un tiro d’archibuso (archibugio)», cioè a un centinaio di metri circa. Gian Giacomo Adria in un suo scritto del 1535 riteneva che si trattasse della vigna di re Ferdinando il Vecchio (?) con annesse grandi scuderie reali, la cui esistenza non è suffragata da altre fonti [6]. Il toponimo da inizio Settecento, negli scritti del Massa e poi del Villabianca [7] diventa Spiaggia della Fontana e della Vigna del re. Superato finalmente il Capo Feto si passa per la Tonnarella – anch’essa rilevata dal Geraci – prima di arrivare al Fiume Mazaro; Stagnone e fiumicello secondo C., noto pure come Fiume Salemi e così lo denominerà l’idrografo militare inglese William Henry Smyth, della Royal Navy, nei primi dell’Ottocento [8].


Camillo Camiliani, Progetto di Torre Cuadara (fine ’500, primi del ’600)


La città di Mazara, il suo castello e relativa cala sono stati oggetto di numerosi rilievi e disegni cartografici da oltre quattro secoli a questa parte, sui quali non occorre soffermarsi in questo contesto; mentre è importante ricordare il toponimo della Falconera, di cui si ha notizia dal Geraci, con antistante secca, «dove vi si possono ormeggiare tre bastimenti grandi latini» [9], a levante della città e prima della chiesa e Costiera di San Vito.
In una carta facente parte della raccolta della Direzione Centrale di Statistica della Sicilia, disegnata e redatta da un anonimo agrimensore mazarese tra gli anni quaranta e cinquanta dell’Ottocento, si leggono altre nuove indicazioni. Sul versante occidentale, quasi al confine con l’attuale Petrosino, scompare Chinisia e, al suo posto, troviamo Zaccanello; a seguire, Punta della Iunca e – prima di Capo Feto – Cozzo di Ponente; prima di Tonnarella altri tre toponimi: Fontana (l’ex Vigna del re), Mezza Praja e Li Due Frati. Nel versante orientale della città, invece, nel tratto che precede la chiesa del Patrono, si registra il Baglio dell’Inglese, cioè dello stabilimento enologico costruito da James Hopps, che a quella data aveva già assunto una rilevanza industriale non indifferente nella provincia, al pari di quelli marsalesi dei connazionali Woodhouse e Ingham; segue la Praja della Bocca e Calapace, dopo la già citata Cala Palumbo [10].

G. Battista Ghisi, Carta della Sicilia, part. (1779)

Alla Punta della chiesa di San Vito il C. attribuiva anche la denominazione li Cassarini (o Casarini), non più richiamata da altri. Il successivo toponimo del Fiume Delia diventa nel tempo: Brizzana (ma anche Brizzano o Verzano), Lia, Rena o Arena e Fiume della Bocca e da questo fino al confine di levante – rappresentato dalla Torre del Saurello, sull’omonima punta e promontorio che segna il limite del territorio mazarese – si registra una singolare proliferazione di nomi. Se S. annota solo Le Caldare (anche Caldara), Cala Frontalta, Cala Grande, Calafetenti (così chiamata per il ristagno delle alghe putrefatte) e Cala de la Zaffarana, il C., in aggiunta, riporta altre sei cale: del Coccio, di Canalperciato e di Malavia (tra le quali si situava la Fonte della Dragonara), del Daino, dell’Alie e del Palombo.
Sconfinando in territorio di Campobello di Mazara, dopo Torre del Saurello, ci si imbatte in Cala di Raisbalata, Cala della Pulce e relativa torre di Torretta Granitola, Punta della Traversa, Punta del Bue Marino, Cala del Corvo detta anche Cala dei Turchi, Capo Granitola, Punta e Cala Secca, Marina e Torre di Tre Fontane. Tanta abbondanza di toponimi si spiega, in primo luogo, con la morfologia più frastagliata di questo versante orientale della costa, caratterizzato, per l’appunto, da numerose piccole insenature prevalentemente rocciose rispetto a quelle sabbiose e più lineari a ovest della città.
Direzione Centrale di Statistica della Sicilia, Pianta di Mazara (databile 1840-1850)

Ma c’è anche un’altra ragione che sottende a tanta dovizia di particolari che scaturiva dalla natura stessa della committenza; l’architetto militare doveva documentare il risultato dei sopralluoghi e delle misurazioni effettuate per motivare la scelta dei siti più idonei a erigere torri di difesa, di osservazione e di corrispondenza con altri punti precisi della costa o delle isole minori. Perciò il repertorio di riferimenti geografici e, in particolare, quello offerto dal Camiliani, era davvero ricchissimo e comprendeva non solo i nomi di città, porti, torri e castelli già esistenti lungo il perimetro dell’Isola, ma punte, promontori, rocche, scogli, cale, canali, fiumi, casali, caricatori, saline, trappeti e, non ultimo, tonnare. Ed è proprio su queste che voglio ora soffermarmi per aggiungere ulteriori informazioni inedite, meritevoli di ricerche documentarie più approfondite. Quando si passa dalla terra al mare, per trattare il tema della pesca e, nel caso specifico, di quella del tonno, ci si può liberare almeno in parte dell’ossessione dei confini territoriali; il tonno certamente li ignora nel suo peregrinare nei mari siciliani e, purtroppo per lui, quando incontra un muro di reti a sbarrare il suo percorso è quasi sempre per proseguire un viaggio che lo porterà nelle camere calate da abili raisi dove sarà mattanzato. I confini marini che per i tonni non esistono, in verità, per i proprietari di tonnare e per i gestori della pesca diventavano spesso materia di liti giudiziarie. Si rivendicava il pieno rispetto della distanza di tre miglia quale limite al di sotto del quale altri proprietari concorrenti non avrebbero potuto calare tonnare il cui sistema e posizionamento di reti poteva intercettare i gruppi di tonni erratici a detrimento della produttività degli impianti già esistenti.
Il mio “sconfinamento” da Mazara verso Campobello è, quindi, inevitabile: da Capo Feto a Tre Fontane si è praticata pesca del tonno con certezza documentaria almeno dal Cinquecento, ma potremmo risalire alle fonti classiche per rinvenire altri riferimenti seppur più generici. Il primo a sottolinearlo è stato Gian Giacomo Adria in un suo scritto del 1535 [11] nel quale definisce la tonnara di Capo Feto come optima. Anche le recenti ricerche di Stefano Fontana segnalano per quel secolo la concessione regia ai Burgio per l’esercizio di una tonnara a Mazara che quasi certamente è la stessa di quella segnalata dall’Adria [12]. Duecentocinquant’anni dopo, il marchese di Villabianca riferisce di una «Tonnarella al presente abolita. Ve ne resta non altro che alcuni rottami di fabbriche delle case e dei cortili che prestavano ai marinari l’abitazione. Pescava ne’ mari del litorale di Mazara donde ella ha il nome di Mazzara, presso la spiaggia detta della Fontana e della Vigna del re» [13]. L’indicazione topografica del Villabianca indurrebbe a ritenere che questa tonnara fosse diversa da quella di Capo Feto ricordata dall’Adria e le distanze calcolate a suo tempo dal Camiliani suffragano questa ipotesi: la Vigna del re distava ¼ di miglio (350 metri circa) da Capo Feto e 3 miglia dal castello di Mazara. Altra conferma si ha dal Massa che nel 1709 così precisava: «Succede la Cala di Capo Feto, o più tosto Porto, perché capace d’un otto Tartane; la Spiaggia della Fontana e la Vigna del Re, luogo così denominato dal cognome di chi l’anni addietro n’era Padrone; indi la Tonnarella di Mazzara, la quale da 25 anni in qua non esiste, e solamente ne restano le vestigie delle case e del cortile» [14].
Torre Sorello al confine con Campobello di Mazara

Se la tonnara di Capo Feto è almeno cinquecentesca, la Tonnarella, attivata forse nel Seicento e cessata negli anni ottanta di quel secolo, è stata quasi certamente di più modesta produttività e dimensione. Come noto, sia a fine Ottocento e fino ai primi del secolo successivo, nei mari di Mazara si praticava la pesca del tonno e, ancora nel 1947, si calavano due tonnare, gestite rispettivamente dagli imprenditori Vaccara e Amodeo [15]. Nel 1907 i due imprenditori Antonino Messina Romano e Bigiano Olinto chiesero la concessione trentennale di una superficie di mare pari a 605 mila metri quadrati antistante alla spiaggia di Capo Feto; era stato osservato dai marinai del luogo «che il passo dei tonni, nei mesi di primavera si verifica abbondante per questo mare, dirigendosi verso levante». Nel 1912, i due soci riuscirono a calare la tonnara ma con scarsi risultati, forse per errore o per i ripetuti sabotaggi ad opera dei non pochi pescatori che temevano un decremento della pesca delle sardelle e delle alici di cui si alimentavano i tonni [16].
Per il tratto di costa orientale in territorio di Campobello di Mazara, Maurice Aymard riferisce dell’attività di due tonnare nel 1639, rispettivamente a Tre Fontane e a Granitola (di nuova fondazione rispetto a T. F.) [17]. Il Geraci a fine Seicento precisava che a Tre Fontane, oltre a una «bonissima torre di guardia», vi fossero «casamenti per servizio della tonnara» [18] e si riscontrano nel corso del tempo ripetute richieste di affitto per calare le reti in quel mare. Il trapanese Matteo Verdirame sin dal 1768 richiedeva al viceré marchese Fogliani «la concessione in pheudum di un luogo di mare chiamato Tre Fontane» per attivare una salina e calare tonnara [19] ma incontrava resistenze da parte dalla regia Corte perché allo stesso tempo pretendeva esenzione da ogni dazio e gabella per i primi dieci anni di esercizio. Tuttavia il re, prima di decidere ultimativamente, voleva comprendere per quali ragioni il segreto (cioè il responsabile doganale e finanziario di Mazara, territorialmente competente) avesse «lasciato in abbandono l’industria della Tonnara» e, allo stesso tempo, quali fossero le credenziali del Verdirame [20]. Acquisite le informazioni positive, il re autorizzò il Fogliani a sciogliere la riserva e a concedere l’autorizzazione a riprendere l’attività della tonnara «giacché ora non se ne ricava niente, se ne fa verun uso» [21]. E a quanto sembra dalla documentazione rinvenuta, non veniva data in gabella (cioè in affitto) dal 1724, quando a gestirla per tre anni era stato don Giuseppe Spada a fronte di un canone annuo di 30 onze [22]. Questo modesto canone è indicativo delle potenzialità del sito produttivo e della quantità di pescato che si prevedeva di poter conseguire.
Va sottolineato, intanto, che Tre Fontane era tonnara cosiddetta “di ritorno”, cioè si faceva mattanza di tonni (Thunnus Thynnus, tonno rosso detto anche pinna blu, Bluefin Tuna) post genetici, dalle carni meno pregiate; il prodotto veniva in minima parte consumato in fresco, ma soprattutto lavorato e posto in barile sotto sale. È presumibile che nel corso di una stagione di pesca (luglio-agosto) settecentesca il risultato complessivo si attestasse su un numero di circa 200-250 animali, oltre naturalmente ad altre varietà di piccoli pesci che venivano catturati e che talvolta assicuravano un’apprezzabile integrazione di guadagni. Tuttavia, già a fine Settecento Tre Fontane sembra essere tornata inattiva, nonostante il Villabianca ancora nella seconda metà di quel secolo vi si riferisca senza però fornire informazioni puntuali: «Tonnara che si ha ne’ mari del litorale della terra di Campobello Napoli, vassallaggio de’ principi di Resuttano, Val di Mazara» [23].
Il sito di Capo Granitola, che pur vantava una genesi seicentesca – come prima ricordato – assurge ad importanza solo nei primi del Novecento allorché il trapanese barone Adragna, comproprietario della tonnara di San Giuliano, ottenne la concessione nel 1908 a poter calare reti e a costruire un idoneo marfaraggio (baglio tonnara, cioè edifici funzionali all’attività) sulla costa [24]. Nell’immediato secondo dopoguerra – come si evince dall’attenta ricostruzione di Gianluca e Marco Serra – sarà poi l’imprenditore trapanese Attilio Amodeo a compiere importanti investimenti per creare un vero e proprio moderno stabilimento industriale di lavorazione e conservazione del tonno sottolio, che mantenne la denominazione di “Tonnara Tre Fontane” già attribuitale dall’Adragna, quasi a evocare la continuità di una storia di pesca con il sito più antico [25].
Delle ultime “calate” di questa tonnara è probabile che qualcuno possa conservare ricordo, considerato che le attività cessarono definitivamente con la stagione di pesca del 1972, andata male come la precedente. Meno probabile, invece, che la maggior parte dei toponimi sopra riportati siano stati utilizzati nella pratica orale quotidiana da parte dei più anziani (cui si potrebbe ancora oggi chiedere), ai quali sarebbe risultato difficile già nel Novecento individuare la dislocazione di Cala del Coccio o di Cala Malavia. Fortunatamente, quando la memoria umana incontra un limite invalicabile, accade di potersi avvalere delle testimonianze documentarie che riportano alla luce non solo toponimi e luoghi di pesca in oblio ma anche episodi sepolti e, come nel caso che segue, anche un singolare evento di “cronaca nera” completamente dimenticato.
Latta di tonno sottolio della ditta Attilio Amodeo e C.
Nel lontano mese di luglio del 1775, durante la stagione di pesca che si svolgeva nel sito di Tre Fontane, ingabellata dal regio demanio al barone Stefano Verdirame (figlio del sopracitato Matteo), «fu ucciso nella spiaggia della Tonnaja di Trefontane territorio di Mazzara, Giuseppe Catanzaro, da Gaspare Robbino» [26]. Non che gli omicidi fossero eventi rari, ma che l’autore del delitto fosse un relegato che dalle prime ricostruzioni sembrava essere stato autorizzato a lasciare l’isola di Favignana per venire a lavorare a Tre Fontane, di certo lascia perplessi. Il trapanese Robbino (altrove Rubbino), infatti, era stato destinato nella maggiore delle Egadi a scontare una pena la cui gravità e durata non conosciamo ma, come la legge consentiva da tempo, (Prammatica del viceré conte di Monteleone del 30 maggio 1524), i carcerati e i confinati, durante la stagione di pesca e, in particolare dal 10 aprile al 20 giugno di ogni anno (periodo definito feriae tonnitiarum), potevano andare a lavorare in tonnara e risiedere all’interno del marfaraggio previa “pleggeria” (cauzione) da parte di un garante, ove richiesto dall’autorità; né si poteva essere arrestati per debiti se ingaggiati per detta attività.
Avuta notizia dell’omicidio e disposto l’arresto, la Gran Corte Criminale diede incarico alla Corte Capitanale di Mazzara di avviare le indagini per comprendere chi avesse autorizzato la partenza da Favignana del Robbino e compilare il processo. Il dubbio non avrebbe dovuto neppure porsi dato che i carcerati e i relegati non erano soggetti a giurisdizione civile, ma al governatore militare dell’isola, presso la quale esistevano ben due forti che ospitavano detenuti: San Giacomo e Santa Caterina. Peraltro, un conto era il permesso per andare a lavorare in tonnara (e a Favignana c’era la più grande e importante di tutto il Mediterraneo), altro era l’autorizzazione a lasciare l’isola per prestare servizio in quella ben più piccola di Tre Fontane, a seguito di una presunta specifica richiesta e versamento cauzionale del barone Verdirame. Dagli approfondimenti e dalle risposte pervenute dai soggetti istituzionali coinvolti emerse una versione ufficiale apparentemente plausibile. Non era vero che il Verdirame avesse versato cauzione per avere al proprio servizio il Robbino, e men che meno il governatore militare ne aveva autorizzato il trasferimento; questi, in realtà, era riuscito a fuggire da Favignana il 2 luglio, approfittando della condizione di semilibertà consentita ai relegati, che potevano muoversi senza molte difficoltà nell’isola.
Tutto chiaro, quindi; non rimaneva che procedere all’arresto e avviare il processo. Ma era davvero tutto così lineare e chiaro? Come mai la fuga non fu scoperta subito, ma addirittura nella «revista de agosto subcesivo»? [27]. Con la complicità di quale padrone di barca poté lasciare Favignana? E perché il trapanese Robbino scelse la tonnara di Tre Fontane? Forse aveva già lavorato in passato al servizio del barone trapanese? Quali le ragioni del delitto? Le carte non dicono altro, ma nella migliore delle ipotesi, la gestione dei relegati aveva mostrato delle pecche notevoli.
Magra e cinica consolazione campanilistica per i mazaresi e i campobellesi del tempo: la vittima, il «miserando Giuseppe Catanzaro», era nativo di Sciacca.
Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018

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