domenica 19 giugno 2016

I Favara di Mazara del Vallo

 

Vini, mosti concentrati e “Ferrenosio”: i Favara di Mazara del Vallo

copertinadi Rosario Lentini

Nel vivo dei moti rivoluzionari del 1848 il giovane Vito Favara Verderame, nativo di Salemi, dopo aver compiuto gli studi a Palermo e vissute le prime esperienze politiche al fianco dei liberali e dei patrioti antiborbonici del capoluogo siciliano, veniva nominato commissario della Guardia Nazionale e inviato a presiedere il Distretto di Mazara.[1] La rivoluzione siciliana, come noto, non ebbe l’esito sperato concludendosi con la sconfitta dei suoi ispiratori e promotori – sia per ragioni militari che di strategia e di divisioni interne tra gli stessi – e con il ripristino del governo di Ferdinando II re delle Due Sicilie. Tuttavia, ciò non impedì al Favara di continuare a coltivare la sua fede antiborbonica e a preparare e sostenere, insieme ad altri liberali mazaresi, l’impresa garibaldina del ’60. Stabilitosi definitivamente a Mazara, sposò nel 1858, dopo essere rimasto vedovo della prima moglie, Emanuela figlia di Scipione Maccagnone principe di Granatelli. Tra il 1858 e il 1860 fu sindaco della città e, come ancora testimonia una lapide in marmo collocata nel prospetto dell’abitazione, ospitò Garibaldi il 20 e 21 luglio del 1862.

indexVito Favara non era soltanto un convinto patriota, ma anche un moderno e lungimirante imprenditore agricolo; in particolare, nei suoi vasti possedimenti produceva cotone, vini e olio, tutti generi ripetutamente premiati alle esposizioni siciliane e nazionali (a Firenze nel 1861, con medaglia di merito per i vini bianchi e neri delle annate 1855, 1859 e 1860) e internazionali (a Londra nel 1862, per i vini e per il cotone bianco di Siam[2]). Alla II Esposizione di orticoltura che si tenne a Palermo nel settembre del 1865, oltre ad un “olio fino da condire” (premiato con medaglia d’argento) e ai vini da pasto, presentò una varietà di marsala concia Italia del 1863, e diversi vini liquorosi GaribaldiAmarenaCedratoCiregia, un “vino imitazione Malaga 1864” e un distillato di vino.[3] Durante i mesi del colera del 1867 non fece mancare il suo contributo finanziario a sostegno della popolazione colpita, né quello materiale, apportando gratuitamente «[…] per la cura dei cholerosi, tutta quella quantità di vino generoso, alcool ed aceto e ciò per tutto il tempo che la Città trova(va)si afflitta dal male dominante, provvedendone Lazzaritti, Ospedale e Convalescenza».[4]

La casa vinicola Favara, unitamente a quella del conte Burgio, che intorno al 1862 aveva avviato la produzione enologica di vini da pasto e di marsala, si affermarono nella seconda metà del XIX secolo conseguendo risultati e successi in ambito nazionale fino ad allora riconosciuti solo alla più antica e prestigiosa azienda anglo-siciliana degli Hopps.[5] Nel 1885 Vito Favara insieme ai fratelli e ai figli (Simone Favara Verderame, Onofrio, Giuseppe e Vito Favara Scurto, Onofrio Favara Mistretta ed Onofrio Favara Maccagnone), «[…] allo scopo di lavorare in comune i vini prodotti dalle proprie vigne e renderli atti al grande commercio ed all’esportazione», costituivano la ditta “Fratelli Favara & Figli”.[6] A questa società il fondatore Vito Favara conferiva i suoi due marchi più apprezzati: il vino da dessert Garibaldi (ottenuto da vitigni americani ed europei) e l’Irene (da uve Catarratto), prodotti sin dagli anni sessanta dell’800 nel suo stabilimento.

Nel 1886, la direzione tecnica della nuova azienda fu affidata all’enologo Libero Candio, allievo del professor Carpenè della Regia Scuola di Conegliano, con obiettivi molto ambiziosi illustrati in una nota informativa pubblica a cura degli stessi Favara: «Il nostro stabilimento non trascurerà la confezione del già rinomato tipo Marsala, ma più si applicherà con cure assidue alla fabbricazione dei vini da pasto, tanto neri che bianchi, da vendersi entro l’anno e da invecchiare. Il nostro stabilimento, inoltre, provvisto dell’ormai conosciutissimo apparecchio del Prof. Cav. Carpenè, del quale ha già acquistato l’esclusività per tutta la Sicilia, si occuperà della confezione del Vino Spumante del quale avrà due tipi: uno sarà uno spumante tipo Champagne e l’altro tipo Marsala […]. Valendosi delle eccellenti uve bianche porrà anche in commercio del Vermouth di vino».[7] Già in occasione della Fiera enologica di Roma dell’anno successivo, la ditta Favara veniva premiata con medaglia d’argento proprio per i vini spumanti «uso Champagne» di cui erano state prodotte le prime 22 mila bottiglie,[8] a pari merito con la concorrente Gancia di Canelli.[9] Contemporaneamente, la ditta diventava fornitrice ufficiale di vino marsala per la Real Casa.[10]

FerrenosioNell’autunno del 1888 i Favara lanciavano sul mercato la produzione industriale di mosto concentrato ottenuto dal succo di uve bianche dei vitigni Inzolia e Catarratto e, qualche anno dopo, anche dalla varietà Pignatello rosso. Il liquido veniva fatto evaporare fino a ridurre il volume ad un quarto della massa iniziale per ricavare «[…] una sostanza fluida, spessa, nera, analoga al sapone molle. Esso – scriveva nel 1892 il giornalista del «Progrès Agricole et Viticole» di Montpellier – ha, in grado elevato, l’odore dei frutti di fresco compressi. […] Nelle buone annate, quando il mosto raggiunge fino al 23 per cento di zucchero e più, il mosto concentrato […] contiene più del 90 per cento di zucchero».[11] La genesi di questa specifica iniziativa è spiegata in un prezioso opuscolo redatto dai Favara nel dicembre del 1891, la cui lettura integrale risulterebbe di notevole interesse anche per gli enologi contemporanei: «Non fu che dopo la rottura del trattato di commercio con la Francia, e conseguente sovrabbondanza di prodotto, che si tornò a parlare della concentrazione di mosto; e fu appunto allora che anche per parte nostra incominciarono gli studii per l’impianto di quest’Industria nella nostra Provincia, che si presentava come la più adatta, per l’elevato grado zuccherino dei mosti che vi si producono, superiore a quello di tutti gli altri d’Italia».[12]

Occorreva, però, superare l’ostacolo principale dell’esosità delle macchine da utilizzare, troppo costose per un impiego limitato a poco più di un mese l’anno: «[…] ci demmo a studiare un apparecchio che pur dando un buon lavoro, costasse il meno possibile, e fosse di facile maneggio; infatti per la vendemmia del 1888 abbiamo fatto funzionare un concentratore speciale che corrispose pienamente al nostro desiderio».[13] L’apparecchio in questione fu, dunque, realizzato dall’azienda mazarese e – stando a una fonte ufficiale attendibile – proprio da uno dei Favara, di cui però non è indicato il nome.[14] All’interno dello stabilimento, inoltre, furono installati moderni macchinari di ogni genere (per la distillazione del vino, per la produzione del ghiaccio, del raffreddamento delle cantine, ecc.). La gamma di mosti concentrati prodotti era di 6 tipi (marcati rispettivamente: N, R, F, D, V.R, V.N), in funzione delle diverse applicazioni. Il prodotto ben si prestava ad essere utilizzato in aggiunta ai vini dell’Italia continentale, naturalmente poveri di titolo zuccherino. Questa modalità di impiego era ben conosciuta e antica ma, come osservava l’enologo Neli Maltese: «Vorrei solo che si smettesse la vecchia pratica di concentrare il mosto a fuoco diretto, nelle grandi caldaje di rame, perché i vini contraggono poi un sapore caratteristico di cotto, spesso così spiccato, da renderli addirittura nauseanti. Il migliore è quello concentrato nel vuoto a temperatura sempre inferiore a 50° C. Questo mosto preparano egregiamente e vendono i fratelli Favara di Mazzara del Vallo».[15]

Sala macchine immagine

Sala macchine

Il mosto concentrato, dopo un primo esame eseguito con successo nel laboratorio romano della Società generale dei Viticultori, fu ulteriormente sottoposto a controlli e verifiche nel 1890, presso le colonie italiane eritree di Massaua e di Asmara.[16] Gli esperimenti furono condotti sotto la direzione del Candio, tra aprile e maggio di quell’anno, utilizzando tre tipi di mosto concentrato che erano stati imbarcati nel porto di Mazara in diversi fusti della capienza di 50 litri ciascuno e che giunsero a destinazione senza aver subito alcuna alterazione nella composizione. Appena diluiti con acqua distillata (da 275 a 380 litri), a due dei tre tipi di mosto vennero aggiunti anche dei fermenti (4 litri di feccia di vino bianco), per verificare l’eventuale differente risultato del processo di vinificazione. Dopo circa quindici giorni di fermentazione i tre tipi di vino vennero lasciati a riposo un’altra settimana e poi filtrati e travasati. Il risultato ottenuto per tutti e tre i tipi fu decisamente lusinghiero, specialmente al confronto con i vini dati in razione ai soldati che per non guastarsi durante la navigazione venivano addizionati di alcol: «I vantaggi che col nostro sistema si raggiungerebbero – relazionava Libero Candio – son vari e di varia indole. Una notevole economia nelle spese di trasporto, facchinaggio, ecc., che ammettendo di adoperare mosto ad ¼ si ridurrebbe la spesa del 75% come del 75% si ridurrebbe la spesa necessaria per i fusti da trasporto».[17] L’esperimento venne ripetuto nel 1891 anche in Argentina con risultati meno soddisfacenti ma ancora positivi, considerata la distanza e durata del viaggio dei fusti di mosto concentrato.[18]

In buona sostanza, la ditta Favara non intendeva soddisfare soltanto la domanda di mosto concentrato che proveniva dalle aziende settentrionali o dell’Europa continentale per rafforzare i vini deboli, i vin santi e i liquorosi, ma mirava a ritagliarsi anche una quota del mercato di quelli da pasto ordinari, proponendo la conversione in vino dei diversi tipi di concentrato nei luoghi di destinazione; piuttosto che spedire 100 botti di vino, si abbattevano i costi imbarcandone 25 di mosto concentrato e si evitava l’addizionamento di alcol. Ad inizio ‘900 la produzione annua di concentrati raggiunse il livello di 6 mila ettolitri.[19] Inoltre, proseguendo le sperimentazioni, si pervenne pure alla realizzazione di un particolare tipo di mosto concentrato dalle importanti qualità terapeutiche, cui fu dato il nome di “Ferrenosio” Favara. Le virtù del prodotto, nel 1894, furono illustrate a un uditorio di specialisti – l’XI Congresso medico internazionale di Roma (29 marzo – 5 aprile) – dal professore Pasquale Freda, con una comunicazione alla seduta della Sezione Pediatrica avente per oggetto il «mosto concentrato di salute» preparato dai fratelli Favara. Le analisi di laboratorio, infatti, mostravano che in un litro di mosto in questione, (in particolare quello marca R, ricavato da uve rosse) fossero presenti 32 centigrammi di ossido ferroso e 77 di anidride fosforica. «Questi risultamenti analitici – precisava una fonte giornalistica – furono per molti congressisti di quella Sezione una vera rivelazione, in quanto che il nuovo preparato potrà avere un’estesa applicazione nel campo terapeutico e prendere un posto eminente sopra tutti i ricostituenti finora conosciuti».[20] Il “Ferrenosio” brevettato dai Favara, che veniva venduto nelle farmacie in flaconi e somministrato con acqua o seltz,  negli anni seguenti ebbe un discreto successo.[21]

Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Note

[1] A. DI STEFANO RUVOLO, Cenni biografici del commendatore Vito Favara Verderame, Palermo 1873, pp. 9-10.
[2] Cfr. R. LENTINI, Quando il cotone e la giummara…, «Dialoghi Mediterranei», edizione on-line, novembre 2013.
[3] Seconda Esposizione di orticoltura, floricoltura e giardinaggio fatta in Palermo dai 8 a 11 settembre 1865, Palermo, 1865, pp. 32-33.
[4] Archivio storico del Comune di Mazara del Vallo, Elenco delle Contribuzioni raccolte elargite volontariamente in sollievo della popolazione travagliata dal Cholera e delle famiglie povere del Paese, Mazara del Vallo, 9-10-1867, a firma dell’Assessore Delegato M. Certa.
[5] R. LENTINI, Il vino di Mazara da Joseph Payne a Luigi Vaccara, in A. CUSUMANO, R. LENTINI (a cura di), Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma, Palermo 2004, pp. 66-69.
[6] Industria vinicola in Mazara, in «La Settimana commerciale e industriale», Palermo, 1886, n. 10, p. 2.
[7] Ibidem.
[8] Fiere vinicole, «La Settimana commerciale e industriale», 1887, n. 9, p. 1 e n. 10, p. 1.
[9] I prodotti dell’Industria Enologica della provincia di Trapani, «La Provincia», anno XI, n. 2, 28 febbraio 1887, p. 1.
[10] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo – Mazzara del Vallo, in Rivista industriale, commerciale e agricola della Sicilia, Bontempelli & Trevisani, Milano 1903, p. 175.
[11] I mosti concentrati, «La Settimana cit.», 1892, n. 43, pp. 3-4.
[12] F.lli FAVARA & FIGLI, Il mosto concentrato e sue applicazioni, Tip. F.lli Vena, Palermo 1892, pp. 3-4.
[13] Ivi, p. 4.
[14] Condizioni economiche della provincia di Trapani, a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Annali di Statistica, Roma 1896, p. 51.
[15] N. MALTESE, Correzione dei mosti zuccherini mediante aggiunta di acqua, Vittoria 1901, p. 87.
[16] Il mosto concentrato in Africa, «Giornale ed atti della Società di acclimazione e di agricoltura in Sicilia e del Circolo enofilo siciliano», anno XXX (1890), pp. 191-192.
[17] Ivi, p. 203; Nuove esperienze di vinificazione con mosto concentrato nella Colonia Eritrea, «Giornale ed atti cit.», anno XXX (1890), pp. 442-447; Relazione sulle condizioni economiche della provincia di Trapani, a cura del segretario della Camera di Commercio Giuseppe Mondini, Palermo 1891, p. 113.
[18] Il mosto concentrato nell’Argentina, «Giornale ed atti cit.», anno XXXI (1891), pp. 280-284.
[19] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo cit., p. 176.
[20] Mosto concentrato di salute, «Nuovi annali di agricoltura siciliana», anno V (1894), pp. 181-182.
[21] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo cit., p. 176.

domenica 12 giugno 2016

Associazione FIDAPA

E' un movimento di opinione indipendente, non ha scopi di lucro, persegue i suoi obiettivi senza distinzione di etnia, lingua e religione o di opinioni politiche e si propone di promuovere, coordinare e sostenere le iniziative delle donne che operano nel campo delle Arti, delle Professioni e degli Affari. La sezione Fidapa di Mazara del Vallo è stata costituita il 24 febbraio del 1980, a casa della scrittrice Maria Vaccara, su proposta della prof.ssa Giuseppina Biondo Neri proveniente dalla sez. di Palermo e durante la Presidenza Nazionale di Maria Bottari. La prima assemblea di sezione, si è tenuta il 9 marzo del 1980 ed il primo direttivo era così composto: Madrina: Giuseppina Biondo; Presidente: Maria Vaccara, segreteria: Liliana Sciarratta, tesoriera: Rossella Ingraldo. La Sezione di Mazara del Vallo, da quarant’anni, interagisce con le istituzioni e con il territorio affrontando con impegno temi delicati come la crisi economica, la disparità di trattamento salariale, gli episodi di violenza contro le donne, i problemi ambientali, i disagi sociali e giovanili, ma soprattutto il valore della Cultura come motore di cambiamento

Maria Vaccara Manzo (prima presidentessa) 

 

 

Anno Sociale 2021/2023



giovedì 19 maggio 2016

Servizi

C'era una volta... un servizio d'autobus, che compariva e scompariva. Questa foto si riferisce agli anni Ottanta
1982/83
Paolo Castrogiovanni (controllore), Vito Alagna (autista), Giuseppe Scavone (autista), Bartolomeo Pavia (autista), Salvatore Foraci (autista), Giovan Battista Giarratano e figlio (sorvegliante)

mercoledì 16 marzo 2016

Giustizia

Ottocento
Il giorno 24 luglio del 1852 due persone furono giustiziate nella nostra città. Si trattò del mazarese Rosario Messina di anni 22, figlio di Pietro e di Giovanni Summa, di anni 20, figlio di Francesco. Vennero ghigliottinati fuori dalle mura, nei pressi della Porta Mokarta.

Quest'immagine si riferisce agli Atti di Morte redatti all'epoca Si trovano nel registro degli atti di morte del Comune di Mazara del 1852, custodito presso l'Archivio di Stato di Trapani, ed è consultabile online nel Portale Antenati al seguente indirizzo:
Purtroppo l'immagine non consente una facile lettura ma rappresenta un documento interessante


Errori Giudiziari


lunedì 18 gennaio 2016

I toponimi e la memoria dei luoghi. Di tonnare e di altro

di Rosario Lentini
Tiburzio Spannocchi, Disegno acquerellato della linea di costa di Mazara (1577-80)

La memoria dei luoghi è prevalentemente affidata alla ricostruzione storica, alla narrazione scritta o semplicemente orale, tramandata di generazione in generazione, di avvenimenti e personaggi; all’esistenza di antiche preesistenze architettoniche, di scavi archeologici, di ritrovamenti paleontologici, di graffiti alle pareti di grotte un tempo abitate; ma anche al verificarsi di eventi naturali o di mutazioniambientali di cui il soggetto umano è stato solo attore passivo. In ogni caso non sempre è facile risalire alla genesi dei toponimi, cioè al processo “creativo” di denominazione dei luoghi.
«Un luogo di memoria – scrivono Fabietti e Matera – può essere reale, in quanto è effettivamente in quel punto preciso dello spazio che si è prodotto un evento assunto dalla memoria come significativo, quale una battaglia, il martirio di un eroe, un miracolo compiuto da un santo… Ma un luogo di memoria può anche essere il prodotto di una attività immaginativa, una “invenzione” del pensiero collettivo» [1]. Le raccolte cartografiche – in particolare quelle a cura degli architetti militari – dalle antiche fino alle più recenti, mostrano quanto sia labile e volatile la memoria dei luoghi e basti mettere insieme tutte le indicazioni che si possono trarre dai documenti di archivio, dai testi a stampa di storiografi e viaggiatori del passato, per rimanere sorpresi dalla varietà di toponimi accantonati e sepolti dall’uomo, dal tempo o da entrambi.
Voglio qui proporre un esempio concreto, proprio per illustrarne la ricchezza e stratificazione di denominazioni, percorrendo idealmente la linea di costa mazarese, da ovest verso est, fino a Tre Fontane, sconfinando, quindi, in territorio di Campobello. L’esame dei manoscritti e delle tavole acquerellate di due grandi ingegneri militari di età moderna, Tiburzio Spannocchi (datazione attribuita alla sua opera 1577-80) e Camillo Camiliani (fine Cinquecento, primi anni del Seicento), ampiamente noti e studiati e qui di seguito citati per comodità con le iniziali S. e C., rappresentano il punto di partenza quasi obbligato [2].
Il nostro itinerario inizia dal confine occidentale con il territorio di Petrosemolo costituito da Bizanti et la Chenisia (S.) cioè Punta Chinisia (C.) cui si sovrappone posteriormenteTorrazza ossia Torre del Buscione [3]. In verità, della torre in questione, ignorata dalla maggior parte degli autori, non è mai stata rinvenuta traccia fisica, pur se è molto probabile che ve ne fosse una di pertinenza dell’Episcopato. Alcuni autori hanno ritenuto fosse collocata a Capo Feto, assimilando, però, erroneamente questo toponimo con la Chinisia – quasi fosse la variante nominalistica dello stesso luogo – che invece distava, secondo le misurazioni risalenti alla prima metà dell’Ottocento dell’idrografo Francesco Arancio, circa 4 miglia (poco meno di 6 chilometri) da Capo Feto.
Da questo confine della Chinisia in direzione della città e prima di Capo Feto, S. rileva soltanto la Cala di Sei danari; C. aggiunge la Cala della Triglia; Filippo Geraci, nel suo portolano seicentesco, Punta di la Matica [4], il Massa la Spiaggia della Mortella [5] e, infine, Arancio segnala uno Scalo di Vaccarella. Superato Capo Feto, si trovava la Vigna del re, ma non lungo la costa, «lontano di marina un tiro d’archibuso (archibugio)», cioè a un centinaio di metri circa. Gian Giacomo Adria in un suo scritto del 1535 riteneva che si trattasse della vigna di re Ferdinando il Vecchio (?) con annesse grandi scuderie reali, la cui esistenza non è suffragata da altre fonti [6]. Il toponimo da inizio Settecento, negli scritti del Massa e poi del Villabianca [7] diventa Spiaggia della Fontana e della Vigna del re. Superato finalmente il Capo Feto si passa per la Tonnarella – anch’essa rilevata dal Geraci – prima di arrivare al Fiume Mazaro; Stagnone e fiumicello secondo C., noto pure come Fiume Salemi e così lo denominerà l’idrografo militare inglese William Henry Smyth, della Royal Navy, nei primi dell’Ottocento [8].


Camillo Camiliani, Progetto di Torre Cuadara (fine ’500, primi del ’600)


La città di Mazara, il suo castello e relativa cala sono stati oggetto di numerosi rilievi e disegni cartografici da oltre quattro secoli a questa parte, sui quali non occorre soffermarsi in questo contesto; mentre è importante ricordare il toponimo della Falconera, di cui si ha notizia dal Geraci, con antistante secca, «dove vi si possono ormeggiare tre bastimenti grandi latini» [9], a levante della città e prima della chiesa e Costiera di San Vito.
In una carta facente parte della raccolta della Direzione Centrale di Statistica della Sicilia, disegnata e redatta da un anonimo agrimensore mazarese tra gli anni quaranta e cinquanta dell’Ottocento, si leggono altre nuove indicazioni. Sul versante occidentale, quasi al confine con l’attuale Petrosino, scompare Chinisia e, al suo posto, troviamo Zaccanello; a seguire, Punta della Iunca e – prima di Capo Feto – Cozzo di Ponente; prima di Tonnarella altri tre toponimi: Fontana (l’ex Vigna del re), Mezza Praja e Li Due Frati. Nel versante orientale della città, invece, nel tratto che precede la chiesa del Patrono, si registra il Baglio dell’Inglese, cioè dello stabilimento enologico costruito da James Hopps, che a quella data aveva già assunto una rilevanza industriale non indifferente nella provincia, al pari di quelli marsalesi dei connazionali Woodhouse e Ingham; segue la Praja della Bocca e Calapace, dopo la già citata Cala Palumbo [10].

G. Battista Ghisi, Carta della Sicilia, part. (1779)

Alla Punta della chiesa di San Vito il C. attribuiva anche la denominazione li Cassarini (o Casarini), non più richiamata da altri. Il successivo toponimo del Fiume Delia diventa nel tempo: Brizzana (ma anche Brizzano o Verzano), Lia, Rena o Arena e Fiume della Bocca e da questo fino al confine di levante – rappresentato dalla Torre del Saurello, sull’omonima punta e promontorio che segna il limite del territorio mazarese – si registra una singolare proliferazione di nomi. Se S. annota solo Le Caldare (anche Caldara), Cala Frontalta, Cala Grande, Calafetenti (così chiamata per il ristagno delle alghe putrefatte) e Cala de la Zaffarana, il C., in aggiunta, riporta altre sei cale: del Coccio, di Canalperciato e di Malavia (tra le quali si situava la Fonte della Dragonara), del Daino, dell’Alie e del Palombo.
Sconfinando in territorio di Campobello di Mazara, dopo Torre del Saurello, ci si imbatte in Cala di Raisbalata, Cala della Pulce e relativa torre di Torretta Granitola, Punta della Traversa, Punta del Bue Marino, Cala del Corvo detta anche Cala dei Turchi, Capo Granitola, Punta e Cala Secca, Marina e Torre di Tre Fontane. Tanta abbondanza di toponimi si spiega, in primo luogo, con la morfologia più frastagliata di questo versante orientale della costa, caratterizzato, per l’appunto, da numerose piccole insenature prevalentemente rocciose rispetto a quelle sabbiose e più lineari a ovest della città.
Direzione Centrale di Statistica della Sicilia, Pianta di Mazara (databile 1840-1850)

Ma c’è anche un’altra ragione che sottende a tanta dovizia di particolari che scaturiva dalla natura stessa della committenza; l’architetto militare doveva documentare il risultato dei sopralluoghi e delle misurazioni effettuate per motivare la scelta dei siti più idonei a erigere torri di difesa, di osservazione e di corrispondenza con altri punti precisi della costa o delle isole minori. Perciò il repertorio di riferimenti geografici e, in particolare, quello offerto dal Camiliani, era davvero ricchissimo e comprendeva non solo i nomi di città, porti, torri e castelli già esistenti lungo il perimetro dell’Isola, ma punte, promontori, rocche, scogli, cale, canali, fiumi, casali, caricatori, saline, trappeti e, non ultimo, tonnare. Ed è proprio su queste che voglio ora soffermarmi per aggiungere ulteriori informazioni inedite, meritevoli di ricerche documentarie più approfondite. Quando si passa dalla terra al mare, per trattare il tema della pesca e, nel caso specifico, di quella del tonno, ci si può liberare almeno in parte dell’ossessione dei confini territoriali; il tonno certamente li ignora nel suo peregrinare nei mari siciliani e, purtroppo per lui, quando incontra un muro di reti a sbarrare il suo percorso è quasi sempre per proseguire un viaggio che lo porterà nelle camere calate da abili raisi dove sarà mattanzato. I confini marini che per i tonni non esistono, in verità, per i proprietari di tonnare e per i gestori della pesca diventavano spesso materia di liti giudiziarie. Si rivendicava il pieno rispetto della distanza di tre miglia quale limite al di sotto del quale altri proprietari concorrenti non avrebbero potuto calare tonnare il cui sistema e posizionamento di reti poteva intercettare i gruppi di tonni erratici a detrimento della produttività degli impianti già esistenti.
Il mio “sconfinamento” da Mazara verso Campobello è, quindi, inevitabile: da Capo Feto a Tre Fontane si è praticata pesca del tonno con certezza documentaria almeno dal Cinquecento, ma potremmo risalire alle fonti classiche per rinvenire altri riferimenti seppur più generici. Il primo a sottolinearlo è stato Gian Giacomo Adria in un suo scritto del 1535 [11] nel quale definisce la tonnara di Capo Feto come optima. Anche le recenti ricerche di Stefano Fontana segnalano per quel secolo la concessione regia ai Burgio per l’esercizio di una tonnara a Mazara che quasi certamente è la stessa di quella segnalata dall’Adria [12]. Duecentocinquant’anni dopo, il marchese di Villabianca riferisce di una «Tonnarella al presente abolita. Ve ne resta non altro che alcuni rottami di fabbriche delle case e dei cortili che prestavano ai marinari l’abitazione. Pescava ne’ mari del litorale di Mazara donde ella ha il nome di Mazzara, presso la spiaggia detta della Fontana e della Vigna del re» [13]. L’indicazione topografica del Villabianca indurrebbe a ritenere che questa tonnara fosse diversa da quella di Capo Feto ricordata dall’Adria e le distanze calcolate a suo tempo dal Camiliani suffragano questa ipotesi: la Vigna del re distava ¼ di miglio (350 metri circa) da Capo Feto e 3 miglia dal castello di Mazara. Altra conferma si ha dal Massa che nel 1709 così precisava: «Succede la Cala di Capo Feto, o più tosto Porto, perché capace d’un otto Tartane; la Spiaggia della Fontana e la Vigna del Re, luogo così denominato dal cognome di chi l’anni addietro n’era Padrone; indi la Tonnarella di Mazzara, la quale da 25 anni in qua non esiste, e solamente ne restano le vestigie delle case e del cortile» [14].
Torre Sorello al confine con Campobello di Mazara

Se la tonnara di Capo Feto è almeno cinquecentesca, la Tonnarella, attivata forse nel Seicento e cessata negli anni ottanta di quel secolo, è stata quasi certamente di più modesta produttività e dimensione. Come noto, sia a fine Ottocento e fino ai primi del secolo successivo, nei mari di Mazara si praticava la pesca del tonno e, ancora nel 1947, si calavano due tonnare, gestite rispettivamente dagli imprenditori Vaccara e Amodeo [15]. Nel 1907 i due imprenditori Antonino Messina Romano e Bigiano Olinto chiesero la concessione trentennale di una superficie di mare pari a 605 mila metri quadrati antistante alla spiaggia di Capo Feto; era stato osservato dai marinai del luogo «che il passo dei tonni, nei mesi di primavera si verifica abbondante per questo mare, dirigendosi verso levante». Nel 1912, i due soci riuscirono a calare la tonnara ma con scarsi risultati, forse per errore o per i ripetuti sabotaggi ad opera dei non pochi pescatori che temevano un decremento della pesca delle sardelle e delle alici di cui si alimentavano i tonni [16].
Per il tratto di costa orientale in territorio di Campobello di Mazara, Maurice Aymard riferisce dell’attività di due tonnare nel 1639, rispettivamente a Tre Fontane e a Granitola (di nuova fondazione rispetto a T. F.) [17]. Il Geraci a fine Seicento precisava che a Tre Fontane, oltre a una «bonissima torre di guardia», vi fossero «casamenti per servizio della tonnara» [18] e si riscontrano nel corso del tempo ripetute richieste di affitto per calare le reti in quel mare. Il trapanese Matteo Verdirame sin dal 1768 richiedeva al viceré marchese Fogliani «la concessione in pheudum di un luogo di mare chiamato Tre Fontane» per attivare una salina e calare tonnara [19] ma incontrava resistenze da parte dalla regia Corte perché allo stesso tempo pretendeva esenzione da ogni dazio e gabella per i primi dieci anni di esercizio. Tuttavia il re, prima di decidere ultimativamente, voleva comprendere per quali ragioni il segreto (cioè il responsabile doganale e finanziario di Mazara, territorialmente competente) avesse «lasciato in abbandono l’industria della Tonnara» e, allo stesso tempo, quali fossero le credenziali del Verdirame [20]. Acquisite le informazioni positive, il re autorizzò il Fogliani a sciogliere la riserva e a concedere l’autorizzazione a riprendere l’attività della tonnara «giacché ora non se ne ricava niente, se ne fa verun uso» [21]. E a quanto sembra dalla documentazione rinvenuta, non veniva data in gabella (cioè in affitto) dal 1724, quando a gestirla per tre anni era stato don Giuseppe Spada a fronte di un canone annuo di 30 onze [22]. Questo modesto canone è indicativo delle potenzialità del sito produttivo e della quantità di pescato che si prevedeva di poter conseguire.
Va sottolineato, intanto, che Tre Fontane era tonnara cosiddetta “di ritorno”, cioè si faceva mattanza di tonni (Thunnus Thynnus, tonno rosso detto anche pinna blu, Bluefin Tuna) post genetici, dalle carni meno pregiate; il prodotto veniva in minima parte consumato in fresco, ma soprattutto lavorato e posto in barile sotto sale. È presumibile che nel corso di una stagione di pesca (luglio-agosto) settecentesca il risultato complessivo si attestasse su un numero di circa 200-250 animali, oltre naturalmente ad altre varietà di piccoli pesci che venivano catturati e che talvolta assicuravano un’apprezzabile integrazione di guadagni. Tuttavia, già a fine Settecento Tre Fontane sembra essere tornata inattiva, nonostante il Villabianca ancora nella seconda metà di quel secolo vi si riferisca senza però fornire informazioni puntuali: «Tonnara che si ha ne’ mari del litorale della terra di Campobello Napoli, vassallaggio de’ principi di Resuttano, Val di Mazara» [23].
Il sito di Capo Granitola, che pur vantava una genesi seicentesca – come prima ricordato – assurge ad importanza solo nei primi del Novecento allorché il trapanese barone Adragna, comproprietario della tonnara di San Giuliano, ottenne la concessione nel 1908 a poter calare reti e a costruire un idoneo marfaraggio (baglio tonnara, cioè edifici funzionali all’attività) sulla costa [24]. Nell’immediato secondo dopoguerra – come si evince dall’attenta ricostruzione di Gianluca e Marco Serra – sarà poi l’imprenditore trapanese Attilio Amodeo a compiere importanti investimenti per creare un vero e proprio moderno stabilimento industriale di lavorazione e conservazione del tonno sottolio, che mantenne la denominazione di “Tonnara Tre Fontane” già attribuitale dall’Adragna, quasi a evocare la continuità di una storia di pesca con il sito più antico [25].
Delle ultime “calate” di questa tonnara è probabile che qualcuno possa conservare ricordo, considerato che le attività cessarono definitivamente con la stagione di pesca del 1972, andata male come la precedente. Meno probabile, invece, che la maggior parte dei toponimi sopra riportati siano stati utilizzati nella pratica orale quotidiana da parte dei più anziani (cui si potrebbe ancora oggi chiedere), ai quali sarebbe risultato difficile già nel Novecento individuare la dislocazione di Cala del Coccio o di Cala Malavia. Fortunatamente, quando la memoria umana incontra un limite invalicabile, accade di potersi avvalere delle testimonianze documentarie che riportano alla luce non solo toponimi e luoghi di pesca in oblio ma anche episodi sepolti e, come nel caso che segue, anche un singolare evento di “cronaca nera” completamente dimenticato.
Latta di tonno sottolio della ditta Attilio Amodeo e C.
Nel lontano mese di luglio del 1775, durante la stagione di pesca che si svolgeva nel sito di Tre Fontane, ingabellata dal regio demanio al barone Stefano Verdirame (figlio del sopracitato Matteo), «fu ucciso nella spiaggia della Tonnaja di Trefontane territorio di Mazzara, Giuseppe Catanzaro, da Gaspare Robbino» [26]. Non che gli omicidi fossero eventi rari, ma che l’autore del delitto fosse un relegato che dalle prime ricostruzioni sembrava essere stato autorizzato a lasciare l’isola di Favignana per venire a lavorare a Tre Fontane, di certo lascia perplessi. Il trapanese Robbino (altrove Rubbino), infatti, era stato destinato nella maggiore delle Egadi a scontare una pena la cui gravità e durata non conosciamo ma, come la legge consentiva da tempo, (Prammatica del viceré conte di Monteleone del 30 maggio 1524), i carcerati e i confinati, durante la stagione di pesca e, in particolare dal 10 aprile al 20 giugno di ogni anno (periodo definito feriae tonnitiarum), potevano andare a lavorare in tonnara e risiedere all’interno del marfaraggio previa “pleggeria” (cauzione) da parte di un garante, ove richiesto dall’autorità; né si poteva essere arrestati per debiti se ingaggiati per detta attività.
Avuta notizia dell’omicidio e disposto l’arresto, la Gran Corte Criminale diede incarico alla Corte Capitanale di Mazzara di avviare le indagini per comprendere chi avesse autorizzato la partenza da Favignana del Robbino e compilare il processo. Il dubbio non avrebbe dovuto neppure porsi dato che i carcerati e i relegati non erano soggetti a giurisdizione civile, ma al governatore militare dell’isola, presso la quale esistevano ben due forti che ospitavano detenuti: San Giacomo e Santa Caterina. Peraltro, un conto era il permesso per andare a lavorare in tonnara (e a Favignana c’era la più grande e importante di tutto il Mediterraneo), altro era l’autorizzazione a lasciare l’isola per prestare servizio in quella ben più piccola di Tre Fontane, a seguito di una presunta specifica richiesta e versamento cauzionale del barone Verdirame. Dagli approfondimenti e dalle risposte pervenute dai soggetti istituzionali coinvolti emerse una versione ufficiale apparentemente plausibile. Non era vero che il Verdirame avesse versato cauzione per avere al proprio servizio il Robbino, e men che meno il governatore militare ne aveva autorizzato il trasferimento; questi, in realtà, era riuscito a fuggire da Favignana il 2 luglio, approfittando della condizione di semilibertà consentita ai relegati, che potevano muoversi senza molte difficoltà nell’isola.
Tutto chiaro, quindi; non rimaneva che procedere all’arresto e avviare il processo. Ma era davvero tutto così lineare e chiaro? Come mai la fuga non fu scoperta subito, ma addirittura nella «revista de agosto subcesivo»? [27]. Con la complicità di quale padrone di barca poté lasciare Favignana? E perché il trapanese Robbino scelse la tonnara di Tre Fontane? Forse aveva già lavorato in passato al servizio del barone trapanese? Quali le ragioni del delitto? Le carte non dicono altro, ma nella migliore delle ipotesi, la gestione dei relegati aveva mostrato delle pecche notevoli.
Magra e cinica consolazione campanilistica per i mazaresi e i campobellesi del tempo: la vittima, il «miserando Giuseppe Catanzaro», era nativo di Sciacca.
Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018

sabato 16 gennaio 2016

Il castello normanno (di Rosario Lentini)

Mazara 1811: quando il castello contava meno del grano

Disegno di Gabriele Merelli, 1677

Il castello medievale di Mazara o meglio ciò che un tempo fu castello, da molti decenni ci si mostra in quell’unico frammento architettonico superstite – un arco a tutto sesto sormontato da un doppio arco ogivale – ormai divenuto icona della città, ben più del suo stemma turrito. Come noto, la costruzione risale al 1075 circa, per volontà di Ruggero I di Altavilla, in posizione soprelevata rispetto all’attuale piano della piazza Mokarta, strategicamente funzionale alla rete di difesa dalle possibili incursioni musulmane lungo la linea di costa meridionale dell’Isola. Ospitò non soltanto il conte Ruggero e l’omonimo re ma anche Federico di Aragona e la regina Eleonora d’Angiò nel 1318 e poi Pietro di Aragona, re Martino e, in ultimo, re Alfonso di Napoli nel 1495. Intorno al 1880, ridotto in condizioni di notevole degrado, fu presa la decisione di demolirlo quasi per intero, per realizzare nello stesso luogo una villa urbana, malgrado – come sottolineava Filippo Napoli [1] – il contrario parere di alcuni archeologi.
A onor del vero, nella seconda metà dell’800, l’orientamento urbanistico di demolire mura per ammodernare le città era molto diffuso in tutto il Paese, da Torino a Palermo, e ad esso si devono gli abbattimenti di cinte murarie per realizzare viali e gli sventramenti dei centri storici per sostituirvi edifici più ariosi. E poiché l’arte del riuso era la norma, le pietre del castello mazarese diruto servirono per il lungomare e per la piazza. Ancora nel 1901, i fogli a stampa dell’opposizione politica locale preannunciavano: «[…] fra pochi giorni anche tu cadrai, o glorioso avanzo di Porta Castello, vetusto documento della dominazione arabo-normanna! E cadrai per l’azione d’un sindaco ostrogoto… Si fa voti all’illustre comm. Patricola, direttore degli scavi e monumenti, perché non permetta che si consumi tale vandalismo» [2].
Ma il degrado era già iniziato molto tempo prima; non a caso, infatti, il 23 dicembre 1793 il comandante della fortificazione mazarese, don Nicolò Velasco, scriveva al ministro della guerra in Napoli, don Salvadore Naselli, per segnalare lo «stato così deplorabile» sia del forte, sia delle vicine abitazioni in cui erano alloggiate le truppe [3]. La sua sorte appariva segnata, nonostante il Canale di Sicilia rimanesse un mare affatto tranquillo; le incursioni piratesche e le catture di bastimenti proseguivano senza sosta e avrebbero meritato un incremento maggiore delle spese per le architetture militari. Tuttavia, il versante tirrenico e quello orientale della Sicilia, almeno fino al 1815, erano considerati anello ancor più debole della catena difensiva, dato che l’espansionismo napoleonico aveva costretto re Ferdinando III a fuggire dalla capitale partenopea occupata dall’esercito francese e a rifugiarsi nel regno di Sicilia. Tra XVIII e XIX secolo, dunque, si riteneva maggiore il pericolo proveniente dalla Penisola italiana e poiché dal 1800 l’Isola di Malta era protettorato della Gran Bretagna, nazione alleata del Borbone, il rischio di uno sbarco di truppe francesi lungo la costa meridionale dell’Isola appariva assai improbabile. FOTO1

Il Castello di Mazara, da F. Negro e C. M. Ventimiglia, Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia, 1640, a cura di Nicolò Aricò, Sicania, Messina 1992

Peraltro, le periodiche richieste alle autorità e istituzioni centrali di interventi restaurativi importanti da attuare non trovavano più adeguato riscontro anche per un altro motivo: Mazara era città demaniale e quindi anch’essa avrebbe dovuto contribuire alle spese e in che misura ce lo ricorda, nel 1811, proprio uno dei suoi governatori, don Michele Burgio Marini: «Il castello di Mazzara necessita di accomodi urgenti. Per l’accomodo di questo castello va tenuta l’Università [cioè la città] in forza di replicati Reali Dispacci. Le muraglie necessitano pure di pronti accomodi» [4]. Tra gli obblighi di bilancio che ripetutamente il re ricordava agli amministratori cittadini vi era quello di destinare annualmente 50 onze solo per il restauro delle mura, importo questo che da tempo non veniva erogato. Inoltre, per il cosiddetto quartiere di Cavalleria, cioè per gli attigui alloggiamenti militari, l’amministrazione comunale aveva imposto apposita gabella sul macino che permetteva di accantonare la non indifferente somma di circa 600 onze l’anno da utilizzare per «riattazione e mantenimento»; poiché però «per tanti anni non si sono erogate, aumenta una somma eccessiva di debito dell’Università».
Don Burgio Marini, consapevole delle difficoltà finanziarie e del fatto che da un’eventuale vendita del quartiere militare si sarebbero ricavate 1.000 onze mentre, di contro, per il restauro ne sarebbero occorse non meno di 4.000, optando per la prima soluzione «propose di serrarsi una strada piena di magazzini che contiene due grandi Conventi in quella lunghezza, che sarebbe necessaria alla quantità delle Truppe, e ciò con poca spesa» [5]. La proposta non sembra abbia ottenuto riscontro positivo, di certo non si concretizzò; eppure, in quel 1811, il problema assumeva una rilevanza tale che, quando in città venne a soggiornare per diversi giorni il funzionario regio don Tommaso de Pasquale, il governatore ritenne di trovarsi al cospetto dell’interlocutore designato a valutare gli interventi necessari.

da F. Negro e C. M. Ventimiglia,Atlante di città e fortezze del Regno di Sicilia, 1640, a cura di Nicolò Aricò, Sicania, Messina 1992
Ma il de Pasquale, che aveva avuto, invece, l’incarico di relazionare sull’andamento della raccolta dei frumenti nel Val di Mazara, preferì mantenere segreta la propria missione e assecondare il convincimento del Burgio Marini il quale: «voleva sapere qual era la mia professione, ed avendo saputo essere architetto, credé che fusse stato commissionato per la fortificazione, cosa che mi fu di sommo piacere per non fare scuoprire la vera e con tale occasione mi fece girare il Castello, quartiere dirotto e le mura che circondano detta Città; nel medesimo giro delle Mura – riferiva ancora il de Pasquale – mi dimostrò la maniera de’ controbandi e come non se li poteva opporre perché gli veniva impedita la sortita in tempo di notte perché le chiavi erano in potere del Senato» [6]. In buona sostanza, dalla “narrazione” del governatore mazarese l’immagine degli amministratori civici e del senato ne usciva a pezzi: non solo erano inadempienti nel finanziare il restauro del castello e delle mura, ma erano persino sospetti di agevolare il contrabbando! La questione cominciava a prendere una piega diversa e di maggior interesse per il funzionario regio, il quale stava compilando un “Notamento de’ Paesi tragittati per la Valle di Mazzara”, cioè una relazione sull’andamento della produzione e del commercio dei grani relativa a 36 comuni, da Godrano ad Agrigento, da Aragona ad Alcamo, da Sambuca a Ribera ecc. e, non a caso, il commento e le informazioni riguardanti Mazara risultavano le più puntuali dell’intero rapporto. Si rileva, intanto, come la resa granaria fosse stata tra le più basse: tre tumoli per ogni tumulo di sementi (a Godrano, per esempio, si erano ottenute rese non inferiori a nove tumoli con punte di sedici) e «solo il Feudo della Piana è giunto fino al sette, e varj Feudi non hanno raggiunto nemmeno la Semenza»; il prezzo corrente si attestava sui 14 tarì e grani 10 il tumulo.
Una pessima annata, quindi, per Mazara, città che anche uno straniero come l’ufficiale della Marina militare britannica William Henry Smyth ben conosceva e riguardo alla quale, in quegli stessi anni, annotava: «si fa grande esportazione di grano, cotone, legumi, vino, frutta, pesce, barilla (termine di origine spagnola per indicare le ceneri di soda vegetale), radici di robbia, olio e sapone, ma durante l’inverno si sente molto la mancanza d’un porto per grandi vascelli» [7]. Quasi certamente allo Smyth queste informazioni vennero fornite dal mercante connazionale Joseph Payne stabilitosi a Mazara sin dalla fine del ‘700 –prima ancora di Matthew Clarkson e di James Hopps – il quale esportava lino, mandorle, olio e vino, nonché il frumento acquistato dal conte di Gazzera [8] e le ceneri di soda da mastro Gaspare Dado [9] e che nel 1819 avrebbe preso in affitto anche un vasto terreno di proprietà della mensa vescovile [10].


Disegno di Gelino, 1802

Tuttavia, per quanto personaggio di spicco, Payne non era il più importante incettatore di frumenti della piazza, mentre il de Pasquale aveva ben rilevato, nel corso della sua indagine, la ristretta cerchia dei maggiori mercanti e produttori: il napoletano don Luigi Cacace che intermediava anche per conto degli inglesi; i mazaresi don Gaetano d’Andrea, il canonico Russo «gran formentario», il gabelloto e negoziante don Antonino Lorrito (Norrito), il padrone di barca Caspro (Gaspare) Baro e, non ultimi, i fratelli Vito e Leonardo Felleccia (Fileccia). I Fileccia e il Norrito in seguito si sarebbero anche associati tra loro come si evince dai Ruoli fondiari degli anni 1824-29 [11]. Secondo il funzionario de Pasquale, i Fileccia corrispondevano con il mercato palermitano grazie ad un loro fratello sacerdote, il beneficiale don Pietro Fileccia. Sono documentati, infatti, ripetuti trasferimenti di somme da Mazara a Palermo sin dal 1803 (da don Vito al citato fratello sacerdote), contabilizzate a debito dei fratelli Woodhouse di Marsala, forse per acquisti sul mercato della capitale siciliana [12]. Si ha notizia per quegli anni anche di un altro reverendo Vito Fileccia mazarese, (probabilmente cugino dell’omonimo produttore-mercante) facente parte della deputazione dei cinque sacerdoti nominati dal vescovo La Torre per preservare il culto della Madonna del Paradiso, le offerte elargite dai fedeli e gli ex voto [13]. «La popolazione patisce, e si lagna – scriveva ancora il funzionario de Pasquale – per esservi molti Negozianti tutt’inclinati a far uscire il formento di controbando nulla curando la sudetta popolazione» [14].

Il castello, primi 900
Niente di nuovo sotto il sole di Mazara. Nel 1785 il sindaco Francesco Sansone Eredia aveva scritto al viceré Caracciolo, in quell’anno anch’esso di scarso raccolto, per segnalare le difficoltà a farsi consegnare «da Massarioti e Borgesi» la quota di frumento prodotta nel territorio (un terzo) «per la necessaria provisione di questo Publico, […] dapoiché per esperienza si è veduto che li Riveli sono stati sempre lesivi a questo Publico, per essersi fatti sempre su d’un piede basso e non dell’effettiva quantità che hanno raccolto» [15]. I produttori, cioè, dichiaravano ufficialmente quantità inferiori di cereali per non essere costretti a versare nei magazzini comunali la quota dovuta nelle annate di carestia ed anzi esportavano di contrabbando il prodotto non rivelato conseguendo più lauti profitti. Secondo il marchese de Gregorio inviato dalla Giunta delle dogane di Sicilia nella primavera del 1803 «per sistemare la Dogana della città di Mazara», le persone del luogo da lui stesso individuate ad assumere gli incarichi erano «adorne d’ogni probità e saggezza» e tra queste vi erano don Vito Fileccia (Regio revisore percontra) e don Antonino Norrito (Fiscale) [16]. Anche in quel tempo poteva accadere che i controllori dovessero controllare se stessi e spesso con risultati ineccepibili, ma nei fatti sul commercio dei cereali si continuava a frodare il fisco e piegare il fabbisogno della città.
Chissà se tra i motivi della mozione degli occhi del ritratto della Madonna del Paradiso, la sera del 3 novembre 1797 – evento miracoloso ripetutosi nel 1807, 1810 e 1811 – non vi fosse anche la commiserazione verso la popolazione affamata dai suoi contrabbandieri!
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

Note
[1] F. Napoli, Storia della città di Mazara, Mazara del Vallo 1932: 52.
[2] «Gazzettino del Popolo», Mazara del Vallo, 28-10-1901, cfr. A. Cusumano, Da «Il Giardino letterario» ad «Astarotte. La stampa periodica locale», in A. Cusumano – R. Lentini, Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma, Palermo 2004: 174.
[3] Archivio di Stato di Palermo (Asp), Tribunale del Real Patrimonio. Numerazione provvisoria, reg. 2339, doc. 25, lettera del viceré Caramanico al Tribunale del Real Patrimonio, Palermo, 13 marzo 1794.
[4] Asp, Real Segreteria. Incartamenti, b. 5402, trascrizione della Memoria di don Michele Burgio Marini, databile agosto 1811.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, lettera di don Tommaso de Pasquale al duca di Ascoli, databile agosto 1811.
[7] W. H. Smyth, La Sicilia e le sue Isole, a cura di Salvatore Mazzarella, Giada, Palermo 1989: 26.
[8] Archivio di Stato di Trapani, not. V. Barracco di Mazara del Vallo, reg. 5286, cc. 17r-18r, 29-4-1812.
[9] Ibidem, reg. 5287, cc. 135r-136r, 8-12-13.
[10] Archivio Notarile Mandamentale di Marsala, not. P. Pace di Marsala, reg. non numerato, cc. 445r-459v, 24-8-1819.
[11] Asp, Ruoli fondiari, 1824-1829, busta 29, registro “Mazara”.
[12] Asp, not. F.M. Albertini, reg, 23946, c. 133r, 10-9-1804; c. 445r, 1-10-1804. Si tratta di alcune lettere di cambio emesse a Mazara da Domenico Lombardo «per la valuta avuta in contanti dal sig. Vito Fileccia», regolarmente pagate al rev. Pietro Filecciasulla piazza di Palermo dal trattario banchiere Abraham Gibbs, fiduciario dei Woodhouse.
[13] P. Pisciotta, La Madonna del Paradiso. Due secoli di culto mariano nella città di Mazara del Vallo, Istituto per la storia della Chiesa, Mazara del Vallo 1999: 33.
[14] Asp, Real Segreteria. Incartamenti, lettera di don Tommaso de Pasquale cit.
[15] Asp, Tribunale del Real Patrimonio. Numerazione provvisoria, reg. 218, lettera del sindaco di Mazara al viceré Caracciolo, 6-6-1785.
[16] Asp, Suprema Giunta delle Dogane, busta 8, fasc. 12, lettera del marchese Gregorio al viceré Asmundo Paternò, Trapani, 24-5-1803.